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Cap. 17 Il sogno e l’umanità - La Ragazza che abbandonò il Destino

Aggiornamento: 23 mar


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           Il sogno e l’umanità


Incontrati gli amici, questi le dissero: “Safaa, come stai? Sei stata bene? Peccato che eri sola nell’Hammam, noi ci siamo proprio divertiti e rilassati, la compagnia è tutto!”.

Lei non li ascoltò neanche e si allontanò a lunghi e leggeri passi verso casa. Questi la guardarono straniti e la seguirono goffamente, con le loro ciabatte malmesse, urlando: “Ehi aspettaci!”.

Tutti e tre adesso non avevano più nessun pensiero della vita vissuta sino a quel momento, e il loro sguardo era perso verso la propria immaginazione, verso quello che sarebbero state in seguito le loro giornate; una mente proiettata sul presente e su ogni passo futuro.

Giunti a casa di Khalil, mangiarono qualcosa e si sdraiarono sui grandi divani del salotto di casa, con il tappeto che prendeva tutto il pavimento della sala e i divani bassi, era il luogo ideale per l’accoglienza e per riposare insieme.

Safaa su quel divano, con i due amici, si sentiva a casa, ma in realtà era molto lontana da casa sua. Quella sensazione la turbava, appena ci pensava si sentiva persa, e in quel fulmineo pensiero si perse e si corrucciò, ma allo stesso tempo, si stava nutrendo della parola “casa”; casa da tempo abbandonata, per viverla nella natura e nei borghi medievali che frequentava per suonare, per viverla nelle stalle dove dormiva, sotto le stelle come soffitto, nei boschi che erano diventati la sua casa e quella dei suoi amici. La casa della sua famiglia invece non l’aveva mai percepita come casa e adesso stava facendo un’inaspettata scoperta, rivelatrice; aveva riscoperto il calore umano di una casa, e non era finita lì.

Era talmente tranquilla dopo l’esperienza dell’Hammam che dopo aver mangiato quattro o cinque datteri enormi e buonissimi, dolci e corposi, che le avevano tolto la fame e portato sostanza vitale al palato e allo stomaco, comprese la verità di quanto le disse una volta Selma, la sua vecchia amica, ex compagna di scuola di origine marocchina. Le disse una frase che all’epoca lei aveva sottovalutato, considerandola solo una favoletta: “Lo sai che i carovanieri del deserto mangiano tre datteri al giorno?”.

Dopo quel pasto Safaa si sdraiò sul divano, socchiuse gli occhi e senza rendersene conto crollò in un sonno pesante e piacevole, iniziando subito un’avventura in sogno. Camminava lungo un sentiero che costeggiava un grande prato verde, con tanti alberi rigogliosi, quando d’un tratto, vedendo in mezzo ad un boschetto una stupenda vecchia grande casa colonica, volle raggiungerla: era la sua casa. Lo fece nuotando, al posto dell’aria c’era l’acqua e lei stava nuotando tra gli alberi guardando tutto intorno con gli occhi spalancati e pieni di meraviglia dal verde che vedeva, nuotava tra il verde, il cielo blu, gli uccelli intorno che volteggiavano, e in fondo c’era quella stupenda casa che l’aspettava con intorno dei capretti, dei cani e la sua Quercia. Poi c’erano la sua amica Nadine e la sua nonna che le sorridevano, sedute su due grandi sedie di bambù sotto al portico tra dei salici piangenti. Lei continuava a nuotare a rana in tutto quell’ambiente e la meta era sempre più vicina. Quel sogno rappresentava il suo grande desiderio di casa, di casa bella, di esseri cari che l’abitavano. Un sogno che rappresentava per lei quell’idea lontanissima di casa che non aveva mai avuto e che quella sera aveva sentito rappresentata realmente come elemento possibile e realizzabile, senza ambizioni di cose impossibili e irraggiungibili per problemi di denaro o affettivi, ma con modestia, semplicità e umanità.

Ora sentiva di poter ambire ad avere nella vita una situazione come quella del sogno, con persone care vicine a lei, semplici come lei che stavano con lei perché le volevano solo del bene. Quel sogno che le mostrava cose impossibili, ben decifrato e sfatato, le aveva dato delle indicazioni per un futuro non impossibile. Aveva finalmente realizzato che bastava poco per sentirsi a casa, in una casa meravigliosa, bastava la semplicità, la tranquillità, degli affetti veri, un luogo dove poter tornare, anche piccolo e modesto; e al momento sentiva di averla, là sulle colline dove aveva salutato Quercia e Nadine, quando di colpo si svegliò e aprì gli occhi non credeva a quello che aveva visto in sogno e si sentì arricchita, colma come da tempo non lo era stata, priva di ogni sensazione di vuoto che nei mesi precedenti via via giornalmente le si presentava davanti. Pensava a Quercia che la stava aspettando. Stava bene e il suo desiderio di conoscere quel posto dove si trovava era ancora maggiore; la sua curiosità e la voglia di vagare per quei luoghi sconosciuti, sino al grande deserto, erano forti. Si sentiva in forza ed elettrizzata, quindi disse agli amici, che nel frattempo si erano anch’essi appisolati: “Ehi ragazzi, si va? Andiamo a visitare la Medina?” Loro non aspettavano altro che Safaa si svegliasse per ricevere le sue idee determinanti, ed entusiasti risposero: “Dai andiamo”.

Dopo un tragitto fatto un po’ a piedi, tra mercanti e spremitori di arance e canna da zucchero, un po’ su degli autobus sgangherati, dove sul retro si aggrappavano per gioco dei ragazzini, giunsero sul posto. Safaa si ritrovò di fronte ad un caos umano che stranamente pareva avere una logica e un ordine, erano più le persone che vendevano oggetti che quelle che curiosavano attente a tutta quella mercanzia. Trovò la medina di quella città un luogo fantastico e fantasioso, radioso, ricco di colori e merci di ogni tipo, dai tappeti ai tipici vestiti marocchini, vasi pregiati decorati finemente in arte arabesca, collane e pietre, minerali di ogni tipo e varietà, colore e bellezza, oltre a una moltitudine di banchi di frutta, datteri e olive di ogni tipo. Molti venditori urlavano per presentare la loro mercanzia; vi erano donne velate e non, giovani ragazze che giravano composte, curiose e attente, con gli occhi neri impenetrabili, alcuni mendicanti chiedevano l’elemosina; altre persone, con fare normale, porgevano degli spiccioli nelle loro mani. Camminavano tutti e tre incuriositi da tutto questo composto trambusto umano, che era la realtà giornaliera di questo altro mondo, un gran bazar permanente, dove tutti facevano piccoli affari, in una tipica giornata dal forte sole, dal caldo potente, ma secco e non pungente, per portare a casa pochi spiccioli e pochi oggetti utili, spezie, olive, una maglia, dei datteri ma soprattutto umanità, soprattutto quella, viva, senza saperlo, nell’istinto di vita di quel mondo.

Safaa si chiedeva come potessero quei venditori e quelle persone povere vivere tutti i giorni così. Un paio di volte si imbatterono in piccole Moschee dove tanti uomini pregavano e, finita la preghiera, qualcuno all’uscita si abbracciava. Poi con tutta fretta ognuno riprendeva il proprio cammino deciso verso le proprie cose, non prima di porgere l’elemosina a chi chiedeva qualcosa, o di comprare dei calzini o tappetini da preghiera da venditori fuori dalla Moschea sotto un sole africano che a nessuno faceva affatto paura. Quella giornata sembrò infinita; i tre ragazzi si erano aggirati tutto il tempo in quel mercato dalla moltitudine di umanità e colori, tra archi ombrosi che solcavano lunghi corridoi di negozietti, che sembravano il Gran Bazar di Ali Babà, osservando mille sguardi svagati, sorrisi, scambi di merci, dolci, abiti, o solo un curiosare continuo.

Safaa comprese che la logica di quel caos in quel preciso luogo del mondo era pura normalità, era tutta la logica dell’umanità. Non importava a nessun venditore se una persona dopo mille chiacchiere, e dopo un salam alaikum, non comprava nessun oggetto; aveva compreso che la ricchezza di quel mondo stava nei contatti, negli sguardi, nella simbiosi dei pensieri e nel mistero di essi, nello scambio di parole ricche di esperienza, di arte della mercanzia, ma anche di umanità che si realizzava negli occhi profondi di un’anziana vecchietta, occhi ricchi di amore mentre davano una benedizione con la recitazione di un versetto coranico, dietro una piccola offerta.

Tanti andavano alla medina pieni di voglia di uscire, con tutta la carica che avevano, con l’idea di acquistare qualcosa, non sapendo che avevano solo bisogno ogni tanto di respirare tutto ciò. Tutto questo per quelle persone a fine serata aveva avuto il suo significato ed era stato importante; ogni frangente, ogni angolo, ogni merce, ogni sorriso, ogni grido di questo o quel venditore, ogni mano tesa di una vecchissima donna dagli occhi luminosi, era vita, e la sua benedizione arrivava dritta al cuore. Era la vita che per tutti scorreva con tutto il suo significato inespresso, anche per chi parlava e urlava al vento senza essere ascoltato da nessuno. Era importante far parte di tanto in tanto di quel grande circo, e Safaa sentiva quel giorno di averne fatto parte, perché ogni persona era un tassello importante del tutto, anche lei, che in teoria era un’estranea. Ma ognuno porta dentro di sé la propria storia; lei, con le sue particolarità, con la sua maglia nera dalle decorazioni orientali, e un’immagine colorata di una divinità indiana sul petto, con i suoi lunghissimi capelli castano scuro, i pantaloncini stretti a marcare le gambe sottili fino agli scarponi che indicavano la sua vita in cammino, il suo zainetto con il flauto che usciva fuori, sempre immancabilmente sulle spalle e i suoi luminosi occhi scuri, anch’essi imperscrutabili mimetizzati tra gli altri, ma portatori di energia, di esperienza e di ricerca. Ogni scambio di una parola con qualcuno, dove gli sguardi trasmettevano molto di più delle parole, prevedeva poi un rispettoso saluto e un lieve segno di sorriso.

Semplicemente questa era la ricchezza che quelle persone, che per un giorno avevano deciso di andare a raccoglierla per riportarla a casa alla sera, insieme a poche dirham o a pochi oggetti, o a mani vuote, ma era un necessario arricchimento interiore, un aver vissuto più intensamente attraverso quegli incontri, come se a varcare la porta della propria silenziosa e povera dimora, dopo quel travaglio di umanità e calore, ognuno ritrovasse arricchito il proprio piccolo fortino fatto di un pavimento pulito, e di poche cose, ma dotate di anima. Così, anche Safaa alla sera portava con sé quell’arricchimento acquisito dal donare qualcosa di sé, anche uno sguardo sorridente, anche solo poche dirham ad altre persone, così che ogni successivo momento della serata che l’aspettava divenne il suo tesoretto… uno scambio di umanità.



A breve la pubblicazione del cap. n. 18 "Le ragazze che ballavano col destino"


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La Ragazza che abbandonò il Destino

La Storia di una ragazza in fuga da un destino non suo




La Ragazza che abbandonò il Destino è un romanzo di formazione che mostra quanto la fuga sia necessaria al ricongiungimento con la propria vera identità: ovunque è casa solo se le radici dell’io sono ben salde.


 
 
 

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