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Cap. 4 "Soraya" - La Ragazza che abbandonò il Destino

Immagine del redattore: Alessandro NiccoliAlessandro Niccoli

Aggiornamento: 28 gen



Cap. 4 "Soraya"
Cap. 4 "Soraya"

Safaa stava camminando da due ore quella mattina, quando ad un certo punto lungo un sentiero che attraversava il bosco incontrò una ragazza che viaggiava da sola a passo lento, di spalle. Era piccola, magra, con i capelli ricciuti e neri, quando la raggiunse, trovandosi accanto a lei, si girò e la osservò. Si voltò anche la ragazza, aveva uno sguardo penetrante, trasmetteva mistero, ma trapelava anche una forte tristezza dai suoi occhi. Rifletté pochi secondi, poi d’istinto le chiese se tutto andava bene. La ragazza inizialmente le rispose di sì e sorrise ringraziandola, ma Safaa non era convinta. Poi la ragazza disse:

“Io mi chiamo Soraya”.

Safaa scese dal cavallo e sorrise, si avvicinò a lei con Quercia e si presentò, poi le chiese di nuovo:

“Sei sicura che vada tutto bene? Siamo molto lontane dai centri abitati”.

Soraya si sedette su un masso, era sconsolata; non sapeva come esprimersi, stava per piangere, teneva lo sguardo basso.

Poi alzò gli occhi un attimo e incrociò due fanali profondi, così erano gli occhi di Safaa quando parlava con l’anima ed entrava dentro l’anima. E allora non poté fare a meno di parlare: stava cammi nando nel bosco da due ore per ritrovare la pace, dato che stava vivendo una situazione impossibile e non più gestibile. Dopo qualche lungo istante di silenzio, Safaa, percependo una certa sintonia con la ragazza, sentì di poter approfondire, quindi le chiese:

“Se non sono indiscreta, quale problema ti affligge?”. Soraya scuoteva la testa dicendo:

“No, no, non è possibile...”. Poi le disse che quello che le era accaduto non sa peva come raccontarlo, perché era molto brutto. Safaa allora le rispose che a parlare ci si libera:

“Parlare con un’altra persona di un problema permette di liberarsene e di osservare il problema dall’esterno, fino a vederlo piccolo”.

Poi aggiunse: “Spesso dimentichiamo un fatto molto importante, e cioè che per comunicare bisogna comunicare tutto”.

Così semplicemente Soraya iniziò a parlare, e le raccontò la sua storia: aveva ventidue anni e viveva con un uomo di sessantadue che l’aveva portata in quella regione dal suo paese, l’Iran, con la scusa di farle prendere la cittadinanza con un matrimonio fasullo e che l’avrebbe poi aiutata a studiare Storia dell’Arte. Soraya le disse che amava disegnare e suonare. Il dramma di Soraya era che era stata ingannata, in realtà quest’uomo di una certa età, giunti in Italia, non le offrì nulla per sopravvivere dignitosamente, non aveva soldi, anzi c’erano molti problemi. Tutti i giorni urlava e pretendeva di avere rapporti sessuali con lei, voleva dormire con lei nello stesso letto. Lei era cadu ta in una trappola infernale, sola in un paese straniero, assoggettata ad un uomo bugiardo.

Soraya raccontò a Safaa che da piccola, nel suo paese i suoi genitori erano tossicodipendenti e quando aveva otto anni sparirono per sempre, quindi fu affidata a una zia; lo zio la violentò quando aveva undici anni, poi venne affidata con la sorellina in un orfanotrofio femminile, intorno ai quindici anni si innamorò di un ragazzo più grande di lei, benestante. Rimase incinta ma la famiglia di lui la costrinse ad abortire e la storia d’amore finì lì. La direttrice dell’orfanotrofio, una donna di cultura e benestante la prese con sé nella sua famiglia, dato che lei non poteva frequentare l’orfanotrofio con altre ragazzine in virtù della sua esperienza; per un po’ stette bene e imparò buone maniere e raffinatezza, ma lei era alquanto ribelle e trasgressiva, non voleva studiare al liceo, e di nascosto frequentava il teatro di Teheran, ove venne travolta da promesse di professori e registi e da un mondo abbastanza li bertino. Interruppe i rapporti con la famiglia adottiva e provò a entrare nel mondo del teatro, fino a quando non le presentarono quest’uomo, come un importante tecnico di cinepresa, e documentarista che la ammaliò con la promessa dell’Italia e di un docu-film su di lei; il resto poi è la triste realtà in cui adesso si trovava, sola, senza un soldo e alle dipendenze di quest’uomo che la trattava da moglie e da dipendente. Era disperata.

Adesso Soraya viveva pensando di potersi vendicare ingannando gli uomini.

Faceva credere loro di essere innamorata, concedeva loro il suo corpo, e chiedeva in cambio denaro e servigi. Soraya disse a Safaa: “Per me non è un problema se qualcuno mi tocca, tanto io non sento più niente, e dopo dieci minuti tutto è finito”.

Ci fu silenzio, poi aggiunse: “In realtà non amo nessuno e vivo la vita sfruttando gli uomini”.

Safaa esclamò:

“Mmmmhhh… tu credi di sfruttarli e di mettere in atto una rivincita, in realtà la violenza che hai subito, non una, ma più volte, si sta perpetrando ancora in te, e così facendo non te ne libererai mai più”.

Soraya iniziò a singhiozzare, ma Safaa doveva essere cinica, se lo sentiva, e proseguì dicendole che tale suo comportamento era solo il frutto della violenza subita; in realtà, la violenza se la sarebbe portata dentro con sé, per sempre. L’idea di vendicarsi sfruttando qualcuno, viceversa, era un continuare ad essere sfruttata e venduta, all’infinito. Da vittima a perenne e inconsapevolmente ancora vittima. Concluse:

“La dignità del tuo corpo e della tua anima non verrà più recuperata”.

Safaa continuò dicendo a Soraya che aveva letto su un libro di scuola una emblematica frase di Victor Hugo, che così recitava:

“Guai a chi avrà amato solo corpi, forme, apparenze. La morte gli toglierà tutto. Cercate di amare le anime… le ritroverete”.

Soraya non si trattenne e pianse. Poi si alzò in piedi, abbassò lo sguardo e si girò per riprendere il suo cammino, dicendo: “Io ormai non ce la faccio più a rialzarmi. Non ho potuto scegliere se potevo amare. Non so amare, sono io che sono stata usata dagli uomini. Io non ho potuto decidere. Almeno loro, le persone di Victor Hugo, hanno potuto farlo”.

Safaa le chiese di attendere, di non andare, e Soraya si fermò; le disse che l’anima, la dignità, l’integrità fisica e morale, nella vita, sono le sole cose che abbiamo, tutta la nostra ricchezza. Poi continuò: “C’è stato un periodo in cui non avevamo la più pallida idea di come si stesse in equilibrio su due gambe, abbiamo speso mesi della nostra vita per imparare l’equilibrio per riuscire a stare in piedi. I momenti in cui abbiamo traballato per poi cadere miseramente al suolo sono stati tantissimi e questo ci ha portato a collezionare fallimenti innumerevoli prima di riuscire. Eppure oggi camminiamo. Lo facciamo naturalmente e ci viene così bene che nella nostra testa non esiste il pensie- ro che: ‘visto che in passato ho fallito tante volte prima di camminare, è meglio che smetta di farlo’. E’ un pensiero assurdo il tuo… non puoi smettere di amare. Ma un po’ ti comprendo, quando si tratta delle relazioni, delle vicissitudini della vita, ecco che ci auto-incolpiamo: ‘è colpa mia, meglio se non ci provo più’.

Dobbiamo imparare a rialzarci, una, dieci, cento volte, come quel bambino che eravamo, e vivere con la sua testa, con la sua fantasia. I fallimenti, gli errori, le ingiustizie, non servono per farci morire, ma per farci rialzare più forti; questo ci chiede e ci insegna la vita. La vita è misteriosa, ha stabilito il nostro percorso, ha programmato tutto e non possiamo tradirla a causa di attacchi parassitari; noi siamo stati programmati per resistervi e guarire. Tutti noi prima o poi veniamo attaccati e messi a dura prova”.

Soraya abbracciò un albero per dei minuti, tornò da Safaa, l’abbracciò e pianse ancora. Poi lasciò piano piano la forte presa, scoprendo, forse per la prima volta, la bellezza dell’abbraccio, scoprendo che quando questo finisce si sta bene, e che più è lungo, più si è felici, pur essendo difficile distaccarsene. Proprio come quando dopo un naufragio è difficile staccarsi dalla terra ferma trovata per miracolo, dovendo poi salutarla per sempre, quella terra che aveva ridato speranza alla vita e riacceso l’anima.

Soraya dovette lasciare quell’abbraccio caloroso che le ripulì la mente e il cuore dai dolori, lasciando un ritrovato spazio per la propria essenza, mai sentita così forte. Fu un abbraccio salvifico. Fece alcuni passi voltando le spalle a Safaa, con lo sguardo rivolto oltre di sé, forse per la prima volta da quando aveva undi- ci anni lo sguardo era lontano da sé stessa, non più rivolto in basso verso la propria interiorità, ma verso l’orizzonte, verso un futuro nuovo, da ricostruire tutto da capo, non più determinato da un passato non voluto, non più un futuro basato sul passato. Aveva ripreso a provare emozioni e a sognare; un miracolo inaspettato durante quel suo cammino giornaliero, ripetitivo, dai ricordi assordanti e paralizzanti, che era divenuto, adesso, un cammino diretto verso un obiettivo, la salvezza… la vita. Il cammino della consapevolezza per lei era ancora arduo e difficile, ma Soraya aveva un fuoco dentro, e prima non lo sapeva. In realtà lei non era una ragazza che nella vita si buttava giù facilmente, neanche dopo le mazzate più forti che avevano colpito il suo corpo e la sua dignità. Quando Soraya in passato era stata a terra priva di sensi, tramortita nel profondo del suo essere sola al mondo, la sua anima era ancora viva e la sua mente continuava a sognare. Aveva il corpo distrutto, ma il suo spirito nei momenti di grande sofferenza, fatta di quasi morte dell’anima, di tenebre, in un angolino del suo cuore riusciva a guardare lontano perché l’amore c’è, indipendentemente dalla nostra volontà, e a prescin- dere da essa. Il suo cuore era forte, e l’aveva salvata tante volte, forse troppe; la sosteneva, era vicino a lei e lei lo sentiva battere forte. Ultimamente lo avvertiva quando nel suo profondo vi era la percezione di un piccolo amore, un’amicizia, un’alba, un cinguettio che segnalava la nascita della vita. Soraya in realtà stava aggrappata alla vita, tenacemente, come attaccata ad un filo, costantemente, e non sapeva di farlo. Viveva sospesa a quel filo.

Safaa le disse ancora delle parole, mentre lei era ferma di spalle e percepiva tutte le vibrazioni di un discorso profondo tra anime, con la parte più nascosta di sé protesa ad accogliere un calore a lei necessario, indispensabile; un calore che non riceveva da tempo, da nessuno, se non dalla vecchia direttrice dell’orfanotrofio dove finì, ma che talvolta le arrivava da una fiducia nascosta che in fondo era sempre presente.

Era la sua forza, una grande speranza e volontà, per riuscire a continuare a vivere, per vedere lontano; era l’amore espresso da quella sua parte nascosta di cuore che l’aveva salvata, grazie al provvidenziale arrivo di un altro cuore che riconosceva il suo, che le si avvicinava e che l’aiutava.

Safaa disse a Soraya: “La vita non è semplice per nessuno. Io avevo molto spazio nel mio cuore e nella mia mente, ma non tutto è stato occupato da cose buone; allora ho imparato che non tutto può rimanere, e che dovevo dire addio a qualche parte di me. Era la cosa migliore che potessi fare per la mia felicità.

Bisogna dire addio a tutte le cose e persone che non hanno dato nulla di positivo. Adesso sto imparando dalla mia cavalla, lei per me è come uno Yogi… e avere un cavallo come Maestro non ha eguali! Ci dobbiamo saper difendere dalle persone, non dalla vita, né dall’ambiente, o dagli animali; tutti gli uomini ci giudicano e ci vorrebbero catalogare e usare a loro piacimento. L’Homo Sapiens ha nel suo DNA la sopraffazione dell’altro. Io non mi sento così, e mi difendo grazie alla mia cavalla, dalla quale apprendo la calma, il modo di vivere diverso, sereno, il modo di mangiare. Contemplo con lei la natura, i cicli lunari, guardo la luna di notte e capisco il lieve moto dell’universo e il suo amore per tutte le cose e per gli esseri viventi, l’impulso vitale che dona loro; capisco il tempo, capisco l’ora, capisco cosa devo fare.

Imparo dal cavallo la necessaria diffidenza verso l’uomo, imparo la velocità e il riposo, la contemplazione, il saper trattenere la forza per quando poi questa potrà servire, l’eleganza, la grazia, l’innocenza… proprio come sono i cavalli: dei guerrieri pacifisti. Per cui, con Quercia mi sto allontanando da tutti coloro che mi hanno buttato giù, e che in realtà non si sono mai interessati a me. Ho messo via tutte le insicurezze e sto percorrendo una strada che spero mi porti a stare solo con coloro che mi amano e mi aiutano veramente. Questo mi ha fatto abbandonare tutti i pensieri negativi. Non più vittima della vita, ma a cavallo di essa, libera da pensieri, condizionamenti e pesi”.

Soraya replicò:

“Non so se ce la farò… mi sento persa nel mio dolore”. “Non lo dire, le cose che pensi poi si realizzano, perché pensandole le crei; dovresti pensare alle cose belle per te, ai tuoi sogni, tenerli sempre per mano e trovare il tuo mondo, la tua strada. Ma occorre necessariamente che ti liberi da tutto ciò che ti impedisce di andare avanti, e abbracciare quello che invece ti rende completa. Così sarai solo quello che vuoi essere e potrai vivere la vita in modo straordinario, vedrai! Tutti possiamo rendere ciò possibile, cambiando tutto quello che non fa veramente parte di noi e della nostra vita, amando noi stessi, smettendo di credere che meritiamo solo pietà”. Safaa proseguì dicendo che lei era in fuga da sola, insieme a sé stessa ed era in cerca proprio di sé stessa e delle persone che erano come lei; che i rapporti interpersonali erano una fonte di soddisfazione e felicità, ma talvolta anche causa di tristezza. “Durante il mio cammino”, proseguì Safaa, “ho imparato a ignorare e a dimenticare le parole, gli atteggiamenti e i comportamenti di molte persone; è una questione di salute mentale, perché ci sono atteggiamenti e comportamenti che ci destabilizzano e ci ostacolano al punto di impedirci di andare avanti e di raggiungere noi stessi, il nostro potenziale. Persone che dicono di amare, ma che contemporaneamente ci annullano. Occorre liberarci da questi rapporti tossici, anche mentalmente, è il primo passo per una vita piena e libera. Le critiche e i giudizi spesso non sono destinati ad aiutarci, ma solo a scoraggiarci, a farci sentire inferiori, e vanno assolutamente ignorati e tenuti a distanza, insieme alle persone dalle quali provengono. Non dobbiamo lasciare che gli altri ci giudichino senza essersi prima messi nei nostri panni, e se una persona si comporta male con te non permettere mai che il suo comportamento alteri il tuo equilibrio. Incontrando una cattiva azione, dobbiamo solo rivedere le nostre aspettative relative a quella persona e andare avanti, dimenticarla, individuare e poi dimenticare ogni manipolazione emotiva. Occorre costruire uno scudo fatto di accettazione, senza cadere nell’abitudine di reagire e arrabbiarsi, o di piangere, dobbiamo invece andare avanti imparando ad ignorare; processo questo che richiede grande equilibrio, capacità di cambiare i nostri atteg- giamenti negativi, concentrandosi a farlo ogni istante con i propri pensieri, perché i pensieri creano la realtà. Le cose che la vita, ogni giorno, ci mette di fronte sono vere opportunità di crescita, sono scampoli di energia positiva solo per noi, e accogliendole possiamo imparare la sua straordinarietà nascosta nei suoi segreti e nei suoi misteri, al di là delle nostre scelte, giuste o sbagliate che siano. Io sono come te, ho le mie grandi ferite, ma adesso sto lentamente camminando verso la vita, guardando chi ero ieri con più saggezza. Per riuscire nella missione di onorare la vita dobbiamo attraversare dei difficili e impervi sentieri; ma il risultato sarà vano se non riusciamo ad essere felici, o quantomeno godere della vita e di cosa questa offre, la natura, i suoi sapori, i buoni affetti, quelli veri; questo è il minimo comun denominatore dell’astratto concetto di felicità. Per questo obiettivo non ho una ricetta, ma sono sicura che pur non essendo esattamente dove vorrei, mi ci sto avvicinando. La strada da percorrere è quella verso le cose che desideriamo con il cuore, e queste cammineranno verso di noi fino a quando non arriverà il nostro tempo da vivere in pienezza la luce e l’energia che il mondo ci offre; dobbiamo solo aprire gli occhi e guardare, contemplare. Per farlo basta camminare con leggerezza con in mano i nostri principi”.

Dopo una discreta pausa, in cui i loro volti erano distesi e illuminati, Safaa aggiunse:

“Non è necessario essere ottimisti, ma fiduciosi verso le forze positive dell’universo; la speranza, per me, non è la convinzione che le cose andranno meglio, ma la certezza che tutto ha un senso, governato da quelle forze, al di là di quello che succederà”.

Soraya era stata ferma, immobile tutto il tempo, ad ascoltare quelle parole, dando le spalle a Safaa, continuando a guardare verso l’orizzonte, lontano, molto lontano dalle sue ferite, che bruciavano ancora forte. Avrebbe voluto girarsi per guardare un’ultima volta il volto di quella provvidenziale conoscenza, amica, quegli occhi grandi e profondi, con i lineamenti dolci e scolpiti, i capelli neri, lisci, lunghissimi, ma non voleva soffrire, non voleva sentire quel momento come un distacco, non voleva più piangere, almeno quella volta. Almeno ora, ora aveva capito e voleva dimostrarlo. Anche se le lacrime erano sempre state l’unica sua difesa dalla malvagità, unico suo rimedio per interromperla, talvolta usate per chiedere pietà, adesso sapeva bene che, sì, poteva anche piangere, ma un pianto di gioia e di amore. Così fece: non si voltò, ma i suoi occhi piangevano, e incamminandosi disse a quella ragazza col cavallo che divenne parte del suo cuore, senza riuscire a guardarla ancora se non per un lieve attimo, spontaneamente, quasi involontariamente, con la sola coda dell’occhio, forse per poterla ricordare meglio, e disse semplicemente:

“Ciao”.

Le parole nascondono un mondo di emozioni a seconda del tono con cui sono pronunciate, dell’espressione di chi le pronuncia, del contesto in cui sono inserite; ebbene, in quel contesto, la vibrazione di quel ‘ciao’, racchiudeva amore e fiducia, fiducia di ritro- varsi un giorno, di ritrovarsi in un momento migliore. Quel ‘ciao’ pronunciato da Soraya racchiudeva in sé queste parole:

“Grazie di essere stata sul mio cammino, ti voglio bene, a presto…”.

Safaa portò la mano destra sul petto e chinò appena la testa.

Piano piano Soraya, passo dopo passo, ebbe il coraggio di andare e molto lentamente sparì, sino a lasciare un’ombra dietro di sé, una figura che pareva essere ancora presente. Lasciò un grande vuoto dentro al cuore di Safaa, ma anche un forte calore.

Safaa rimase lì seduta, con la schiena appoggiata ad un grande albero, ad ascoltare sé stessa. Si stava pian piano riappropriando dei suoi sentimenti; cominciava in quel suo viaggio a sentirli vivi e rifletteva sulla sua essenza, che stava crescendo in lei, nel momento stesso in cui era riuscita a chiudere i ponti con tante cose che non le appartenevano, nel momento in cui si era confrontata con quella ragazza e le aveva parlato con il cuore.

Nonostante il velo di tristezza, Soraya le aveva lasciato gioia, forza e positività e con Quercia si trattenne in quel luogo a percepire la natura intorno a loro, con ancora addosso quell’abbraccio fatto di una vita di dolore e di coraggio. Lo aveva assimilato tutto, anzi, ne era rimasta quasi tramortita, non poteva levarselo di dosso e perciò lo tratteneva davanti al tramonto arancione, passando dal forte canto delle cicale al più dolce canto dei grilli. Con la comparsa delle prime stelle vedeva davanti a sé il percorso intrapreso e quello da fare. Comprese che certi viaggi della vita, come quello di Soraya, erano molto duri, anche se diversi dal suo, ma che forse potevano portare alle stesse mete, agli stessi risultati, sfiorando analoghe riflessioni, fino alla medesima consapevolezza. L’intuizione che Safaa ebbe nell’ultimo momento del calare del sole fu che ogni cammino, pur difficile che fosse, con tutte le sue buche, aveva un’unica difficoltà di base, non maggiore di ogni altro cammino, era quella di mantenere ferme le proprie decisioni e la propria integrità, ma anche di saper ascoltare e lasciare sempre aperta una porta a soluzioni diverse.

Era calata la notte e Safaa rimase a dormire in quel luogo, senza montare la tenda ma tirando giù da Quercia solo il sacco a pelo e il tappetino. Non pensava più a niente, sentiva solo la bellezza intorno e la contemplava lasciando scorrere via ogni pensiero.

Si stese con le stelle ormai tutte sopra di lei e con Quercia accanto che la osservava socchiudendo gli occhi; l’unico pensiero che le balenava per la mente era lo stupore che provava per il piacere di quella sua solitudine vissuta a contatto con la natura. Non era mai stata così, e pensava:

“Non si è mai soli se si sente la natura, se si percepiscono i suoi suoni, se si cammina in essa, lontano da tutti, da tutte le persone, dai rumori della città, dal male e dalle sofferenze che gli uomini infliggono agli altri, ai più deboli, per puro interesse, egoismo e ignoranza. Se si è soli, nel rumore sinfonico della natura e dei suoi esseri, non si è soli; e se il passato è buio, questo sparisce d’incanto, perché sai che arriverà l’alba, te lo dice la luna mentre cammina piano”.

Safaa osservò a lungo la notte e le stelle e pensò come la sua solitudine nel mezzo a quel firmamento

fosse cosa bella e preziosa; riusciva a sognare a occhi aperti, dedicandosi solo a sé stessa, all’energia, agli odori e ai suoni che sentiva. E come a voler fare un bilancio della sua partenza, disse a sé stessa:

“Il mio cammino è l’unico possibile…e non nego che sia bello, potrei anche gioire e cantare; ma per cosa dovrei cantare? In certi angoli del mondo non c’è nessuna differenza tra il cantare e il non cantare, tanto è grande la sofferenza; mi basta solo ascoltare. Perché rincorrere la serenità quando ci portiamo dentro l’amarezza e l’oppressione? Non dobbiamo rincorrerla, ma semplicemente andarle incontro, abbandonando il passato che non deve turbarci o condizionare quei nostri atteggiamenti che in realtà non ci appartengono”.

Poi pensò:

“E perché dobbiamo parlare quando in certi angoli del mondo non c’è nessuna differenza tra il parlare, il non parlare, esistere o morire?”.

Safaa realizzò che in futuro avrebbe parlato molto meno, solo il necessario, e scambiato la sua energia con le persone migliori e con i posti più belli.

Guardando le stelle, prima di socchiudere gli occhi, un ultimo pensiero le balenò in testa:

“Ora sono solo io, con la mia forzata solitudine vivo un mondo perfetto che, guardandolo sotto questa sua luce, risponde dando amore e forza. E’ solo percependo la natura e i suoi messaggi che gli esseri animali e taluni umani vivono in pieno la vita. Possiamo vivere in tale unico e possibile mondo, con tutte le difficoltà nel poterlo e doverlo fare; questa è la missione.

Solo così adesso canterò le mie canzoni, solo se verranno da dentro, dall’amore che ci portiamo; e questo non va cercato, non va posseduto… c’è e basta, e non va perso”.


La pubblicazione continua col cap. n. 5 "Il Cammino" 


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