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L’attacco ai mostri interiori

Safaa da piccola aveva subìto dei traumi non proprio leggeri né consueti, ma non riusciva ad inquadrarli; era indirizzata dai suoi familiari a guardare le persone più sfortunate, sorvolando sulla propria situazione, che era naturalmente una posizione privilegiata, con tutte le comodità possibili. Ma così non riusciva a individuare i suoi mostri, delle lame che di tanto in tanto le entravano nello stomaco provocandole delle inconcepibili fitte; mostri nati da esperienze che aveva rimosso da tempo, a cui non pensava più, che non credeva essere state traumatiche; mostri che poco a poco si erano annidati dentro di lei: le stavano divorando l’anima. Li aveva sempre sottovalutati, ma ora lungo il suo cammino stava iniziando a individuarli e si stava armando per comprendere chi e cosa erano, per combatterli.
Da piccola i suoi genitori erano indifferenti con lei, ma lo erano anche tra di loro, tanto che vivevano spesso separati per lunghi periodi. Non le avevano dato affetto né calore, la facevano sentire colpevole del loro vuoto familiare, di un vuoto profondo; vuoto che in realtà proveniva solo da loro. Spesso la lasciavano da sola, non prima di averla redarguita per delle banalità; l’avevano resa insicura. La salvò solo il suo istinto di sopravvivenza, legato alla sua curiosità, sempre alla ricerca di messaggi provvidenziali da un qualcosa: dalla musica, dalla natura, dagli animali. Era stato così che durante tutta la sua infanzia fino alla sua fuga, le erano nati i mostri dentro, pronti a uscir fuori a trafiggerla ogni volta che lei percepiva un rifiuto o un semplice atteggiamento di contrarietà da parte di qualcuno; erano diventati forti e la stavano dilaniando, in modo subdolo, senza farsi riconoscere, portandola dritta verso una depressione inconcepibile, una roba che non sapeva neanche esistere.
Lei di fronte al male oscuro reagiva in modo sbagliato, reprimendo la propria personalità; si era costruito un carattere ribelle, ma così facendo era solo una facile preda nella sua sconosciuta battaglia interiore, una battaglia che non sapeva neanche di combattere. Come poteva vincere una battaglia, ma anche solo combatterla, se non sapeva neanche che la stava combattendo, senza sapere chi erano i suoi nemici, senza sapere che questi tramavano contro di lei da sempre, che erano dentro di lei?
Il suo destino era quello di una sicura sconfitta totale, frontale, di una vita infelice, scritta da altri. Ma uno scampolo di arma rimaneva ancora dentro di lei, e consisteva nella sua convinzione che i suoi sentimenti erano sacri, e questi combattevano dentro di lei, e per lei, contro quei mostri che sputavano fuoco, dentro di lei, contro quei mostri, sentimenti che non dava in pasto a nessuno. Ciò avvenne fino al giorno in cui se ne andò via assieme a Quercia, la sua cavalla nera, iniziando il suo viaggio verso la vita. Fu la svolta che le fece aprire gli occhi per un combattimento ad armi pari contro quei suoi mostri.
Prima di partire aveva conosciuto un giovane ragazzo appena più piccolo di lei di nome Nafis, e forse fu proprio lui l’inizio della svolta, della comprensione, della connessione e della scoperta. Forse aveva acceso qualcosa di sopito dentro di lei, che comunque era pronto da tempo per essere risvegliato. Aveva bisogno solo di un grande stimolo di impeto per azionare un incredibile colpo di reni. Nafis aveva gli occhi verdi e i capelli castani riccioli, era magro come lei, incurante dell’abbigliamento ma limpido negli occhi, limpido in ogni azione e movimento, in ogni parola e sguardo, le sue parole erano vere, pacate ed entranti. Lui era verità.
Per come si presentava sembrava uscito da una capanna, sempre spettinato, sempre in maglietta, era molto riflessivo e gioioso, pur non sorridendo spesso; non sorrideva, ma lo facevano i sui occhi lucidi e luminosi, con delle impercettibili grinze che si formavano quando li assottigliava. Safaa si vide con lui per sole tre o quattro volte, ma il trasporto di energia tra i due ragazzi era stato molto forte, comunicavano telepaticamente, e lo capirono quasi subito. Poche settimane dopo quell’incontro Safaa venne mandata via dai suoi genitori, in punizione per il suo carattere ribelle e indifferente ai loro dettami, in quella fattoria isolata, per tutta l’estate. In realtà l’estate lei la passò altrove, perché fuggì immediatamente insieme a quella incredibile cavalla ribattezzata Quercia non appena la conobbe. Tra lei e Quercia fu amore a prima vista.
Durante i loro incontri, Nafis e Safaa andavano a camminare in un bosco fuori città. Safaa si sentiva a suo agio con Nafis, scherzavano molto su ogni cosa e lei capì, grazie a lui, di avere un alto senso dell’umorismo; anzi, avevano un simile senso dell’umorismo, facevano battute e attraverso queste scoprivano la realtà che li circondava, fino a prendersi in giro per gioco. Quindi, arrivato il momento della serietà, varcato in pieno il confine della fiducia e forse anche della confidenza, lei parlò a Nafis della sua diffidenza verso molte persone, soprattutto coloro che le ricordavano alcuni suoi familiari, e delle sue paure improvvise di essere sola al mondo, di sentirsi indesiderata, dilaniata dentro da mostri invisibili e inafferrabili, tanto che quando aveva questi attacchi non poteva uscire di casa, era costretta a nascondersi, rannicchiata al buio da qualche parte, sentendo un grande freddo interiore, quasi a prenderle le ossa. Quando le succedeva questo, il tempo diventava infinito, passava delle ore in quella situazione catartica.
Nafis con un mezzo sorriso, abbracciando un albero, le disse:
“Non ti succederà più, devi avere la fiducia che se tutti i giorni vuoi bene a te stessa, per ogni attacco arriverai ad avere due vittorie a tuo favore; due vittorie per ogni crisi ci puoi stare”, e sorrise. “Questa è una legge della natura, ma funziona solo se ti guardi dentro, se vedi quello che ti succede, se reagisci sempre, esattamente come fa un fiore che, in qualsiasi situazione si trovi, prende tutta la luce che può e combatte al massimo delle sue energie per rimanere in vita, prima di lasciarsi appassire…; il fiore sa che la fine è un fatto naturale, ma l’accoglie solo quando è il momento”. Nafis era sicuro di ciò che diceva, le sue parole erano semplici ma ricche di significato. Un giorno la portò in un bosco fitto, dove si arrampicarono su due alberi e da lì comunicavano facendo finta di essere due uccelli: cinguettavano di tanto in tanto, e così facendo non pensarono più a nulla. E dopo molto silenzio in cui ognuno vagava immerso nel suo benessere, nel vento dei suoi pensieri, in contemplazione dell’ambiente, uno dei due, come svegliandosi all’alba, iniziava a cinguettare proprio come un uccello, per sapere se l’altro era sveglio, se aveva la consapevolezza della sua presenza, e l’altro rispondeva con un forte cinguettio.
Arrivò il momento per Safaa, dopo quelle giornate dove Nafis le fece riscoprire la vita che la natura donava, in cui d’improvviso i genitori la mandarono via, con la scusa di avere tutte le colpe del mondo per i malumori della famiglia, ma di fatto non potevano e non volevano occuparsi di lei.
Da quel luogo dove era finita aveva però trovato la forza di reagire e fuggire via. Forse grazie alle parole di Nafis, forse grazie a Quercia, la cavalla che comunicava tutta la forza, la dolcezza e la voglia di libertà del mondo, che le chiese di fuggire, Safaa si immerse nel suo grande viaggio; quel viaggio incredibile nella vita, nel vivere in pienezza l’ambiente con tutta la sua creazione, per acquisirne misteri e conoscenza, e per ritrovare la propria forte essenza.
Le sue ultime riflessioni nella notte, prima di fuggire, erano tutte incentrate sul ricordo di Nafis e dei momenti passati con lui, su quelle sue poche sagge e granitiche parole:
“Passerà... abbi fiducia, pensa alle vittorie, dalle sconfitte”. Pensava ai suoi occhi verdi, profondi e imperscrutabili, che la guardavano e che lei guardava incantata; era sicura di poter comunicare con lui durante la sua prossima fuga sola con Quercia nell’immensità, e qualcosa attraverso le stelle la connetteva a lui.
Correndo Safaa fuggiva dal passato, incurante, si- cura di sé, e rincorreva adesso le sue paure. Ripensava alle parole di Nafis che le avevano dato il coraggio di percorrere la sua strada da sola ascoltando sé stessa; aveva solo diciassette anni, ora rifletteva molto, principalmente sui momenti non buoni del proprio passato, cominciava a ricordarli tutti chiaramente, a decifrarli e farseli scivolare via di dosso. Doveva ripartire da questi, e per far sì che non si ripetessero doveva imparare da essi, doveva mutare il proprio atteggiamento verso la vita, ma anche con le persone, doveva tranquillamente abbandonare quelle persone che non erano in empatia con lei o dalle quali percepiva falsa vicinanza ma solo ostilità, giudizio e quell’invidia che ben poteva esser letta da certi falsi sguardi; era giunto il momento di ricostruire la propria vita da persona libera, e queste persone glielo impedivano.
Intorno a lei sino ad allora aveva regnato solo il malumore, il caos e l’incertezza; avere trovato quella persona amica che l’aveva convinta ad avere fiducia in sé stessa, era stata un’enorme risorsa voluta da un destino vero, da dover cogliere, un destino che di tanto in tanto s’ insinuava nel destino scritto per lei da altri, da una società malata dentro, dalla quale aveva realizzato di dover fuggire, e di cambiare tutto.
Di fronte alla grande instabilità che sentiva, sia personale, sia del mondo intorno a lei, era importante riconquistare la calma interiore, avere fiducia e, per il momento, adottare un atteggiamento di adattamento. Ad un certo punto, dopo la sua partenza, le sue paure perdevano la loro forza, proprio nel momento in cui iniziava a credere nelle proprie risorse, e giorno dopo giorno, stava acquisendo come per miracolo una grande sicurezza, una nuova consapevolezza.
Il primo giorno del suo viaggio dopo una lunga corsa durata tutto un giorno, Safaa realizzò mille pensieri e, quando alla sera si accampò con Quercia su di un fiume, di fronte a un panorama arancione mai visto, su vallate verdi infinite, fece il punto su questo elemento sconosciuto ai più, guardava lontano e pensava: “Quando al mattino ci svegliamo ci portiamo dentro i sogni della notte, ma spesso non li comprendiamo, o semplicemente non riusciamo a trattenerli, si dissolvono in un attimo e una sensazione di vuoto ci opprime; sensazione che ci portiamo dietro. Il sogno, il pensiero, la visione, non è altro che una scheggia di energia, che se non tratteniamo, si dissolve e subito svanisce. Questo accade a causa della nostra costante distrazione, dovuta a intrusioni di elementi esterni nella nostra mente e anima, dovuta al desiderio indotto di oggetti materiali dal nostro sistema sociale. E poi la vita scorre, e non capiamo il pegno che paghiamo a tale sistema, di credenze, di abitudini, di falsi doveri; inseguiamo con corpo e mente sempre qualcosa, non sappiamo cosa, talvolta senza più mente, senza più mete, talvolta quello che desiderano gli altri, quello che vuole la società, finendo così per vivere nell’insoddisfazione, dimenticando le nostre emozioni, le nostre vere esigenze, e ritrovarsi persi su un terreno arido non consono a noi, ai nostri sogni e aspirazioni, sogni che non afferriamo. Basterebbe guardare semplicemente dentro di noi, camminare un po’, tutti i giorni tra betulle, castagni, noci, tigli e querce, respirare consapevolmente la loro energia avvolgente, volgere all’esterno il nostro sguardo e cogliere dall’ambiente intorno i suoi colori iridescenti dal verde all’azzurro per farsi ipnotizzare.
Così, semplicemente, e semplicemente sorprendersi nel capire che stiamo riuscendo a cancellare per sempre pensieri insani, inutili, irritazioni provocate, andare oltre, nella direzione di noi stessi e dell’universo, in suo ascolto; e d’incanto agguantare quel nostro sogno al mattino sfuggente che d’improvviso si coglie, solo osservando costantemente l’evoluzione della natura con i suoi animali e colori mutevoli. La ricerca della consapevolezza deve necessariamente partire da ciò che è sogno e immaginazione. Un sentiero, un bosco; ogni momento del mio viaggio sarà l’anello mancante, ed è proprio da qui e ora, in questo posto incantevole, sola, che ricomincio a respirare, a vivere… e catturerò i miei sogni”.
Il giorno dopo Safaa si sentiva bene, si sentiva libera, corse con Quercia ancora e ancora, solcando quelle valli e alla sera, accampatisi in quiete sotto ad una grande quercia, realizzò ancora: “Niente ci lega alla vita più della convinzione di meritare qualcosa di positivo, e qualunque cosa accada potremo sempre contare sulle nostre forze; questa è una risorsa psicologica troppo importante. Peccato non averlo capito prima, ma sono contenta di averlo compreso anche solo ora, anche adesso che sono sola con la mia vita. Ma forse è proprio per questo che l’ho capito: perché sono sola. Certo, il contraltare di questa fiducia in sé stessi è la paura, che porta all’insicurezza e alla sensazione di perdere il controllo su tutto”.
Safaa pensando agli errori e alle situazioni che l’avevano portata ai suoi mali interiori e alle sue insicurezze, traeva adesso tesoro, proprio da quei suoi passati drammi dimenticati e d’improvviso si ritrovò dentro a questa sua nuova consapevolezza.
Adesso, in viaggio in solitaria, le opzioni nella sua vita erano due: o sprofondare nell’abisso dell’impotenza e dell’oscurità e tornare indietro, forse la più semplice, o reagire, facendo uno sforzo sovrumano con tutta l’energia che aveva dentro, le cui componenti fondamentali erano la fiducia, l’autostima e la contemplazione della natura, dalla quale riuscire a trarre linfa vitale; doveva sentirsi in grado di portare a termine un progetto, e al momento il suo progetto era quello di aprirsi all’amore per sé stessa e per gli altri, per le persone che lo meritavano.
Viaggiava a passo lento con Quercia portando con sé i suoi punti fermi, con gli occhi e l’anima persi nelle note della natura che l’accompagnavano, in direzione di quello strano amico, Nafis: lo doveva rincontrare. Sapeva dentro di sé che lui aveva qualcosa che a lei mancava, che lei aveva dimenticato. Aveva qualcosa di molto familiare con lei, qualcosa di impercettibile che solo lui poteva comunicarle, attraverso un’empatia che legava le loro menti, i loro mille interrogativi e le loro mille vie di fuga. Doveva parlare ancora con lui.
Per il momento Safaa viaggiava solo assieme a Quercia e al suo dialogo interiore, spontaneo, grazie ad un lento camminare e respirare, senza più dentro quelle voci che per molto tempo l’avevano convinta di non essere capace, di non sapere cosa fare o di non meritare qualcosa, viaggiava verso la sua luce, verso un giorno dopo migliore.
Aveva realizzato che doveva intraprendere quel cammino da sola se voleva imparare ad avere fiducia, elemento essenziale per andare avanti, sapendo bene che il compito richiedeva un lavoro duro e costante.
“La fiducia in sé stessi e l’autostima infatti si usurano molto facilmente” pensava Safaa, ricordando le esperienze passate in una famiglia borghese, con le sue comodità, ove però regnava il silenzio, o dialoghi vuoti con alla base il giudizio e lo sminuire l’altro con preconcetti ed etichette, rapporti talmente bassi da non comprendere più se fossero la realtà di tutti i tipici rapporti familiari del mondo, ma una cosa l’aveva capita: quelle dinamiche familiari dovevano essere abbandonate al più presto. Comprese questa necessità; quel concetto di famiglia ordinario che non le apparteneva più. Tuttavia era molto difficile riprendersi l’autostima persa; “solo recidendo legami tossici non è come scoprire di colpo un’opera d’arte e godersela per sempre”, pensava Safaa. Era una questione molto più sottile, che richiedeva tempo e decisioni. Sapeva purtroppo, per esserci passata, che a volte basta una delusione, un errore o persino un affetto perso in modo disastroso, in totale disintegrazione di quelle forze psicologiche sulle quali aveva investito, che l’autostima poteva di nuovo andare persa. Con questi inciampi che via via le accadevano a causa del suo carattere divenuto spigoloso, nonostante i buoni propositi sarebbe potuta arrivare una brutta deriva perdendo per sempre la fiducia in sé stessa.
Non era affatto semplice scegliere da sola un destino diverso, sapeva che un ulteriore sbaglio l’avrebbe rovinata per sempre.
Ecco che non aveva più investito in relazioni… fino a quando non ne trovò una troppo coinvolgente, da non poter fuggire, e anche se non sapeva cosa provava, non sapeva dire di no, non sapeva scrollare gli occhi dai suoi occhi.
Safaa era cosciente che era assolutamente necessario rimanere vigile e avere cura di sé a livello mentale ed emotivo, e per fare ciò si era imposta di fare chiarezza sui propri valori, sui propri scopi, sul benessere del proprio corpo, sentirlo in ogni momento grazie all’abbandono di ogni pensiero tossico, memore della sua lettura di Richard Bach: “Il vostro corpo non è altro che il vostro pensiero, una forma del vostro pensiero, visibile, concreta. Spezzate le catene che imprigionano il pensiero, e anche il vostro corpo sarà libero”.
Del resto la sua era una ricerca della felicità; aveva quell’imperativo che la teneva viva ed era consapevole del fatto che i legami personali creano stimoli mentali ed emotivi che sono un fattore automatico di miglioramento dell’umore, mentre l’isolamento è un elemento di disturbo. L’associazione tra la felicità e i legami affettivi significativi è certamente forte, ma lei al momento si trovava sola, con ancora i suoi mostri che via via facevano capolino nella sua mente e nei suoi sogni. Il primo passo da fare per uscire da tale situazione era fissare come obiettivo quello di rafforzare i suoi rapporti personali, quelli veri, ma anche di eliminare le persone negative dalla sua vita. Fu così che scelse, per il momento, di rimanere sola, sola ma libera. Del resto quando si fugge dalla caverna per trovare la luce, si rimane soli, questo è il prezzo, e guai a tornare indietro ad esortare gli altri a trovare la luce, porterebbe a malevolenze e vendette. Safaa non lo sapeva ancora, ma avrebbe in seguito allargato le sue cerchie sociali in modo positivo, incontrando persone ricche di luce che la pensavano come lei, che la stimavano per quello che era, persone che impostavano la propria esistenza proprio come faceva lei, nella direzione della crescita e del benessere personale, più che materiale. Lei era avvantaggiata in questa sua opera di ricerca della parte migliore di sé, in quanto per attitudine aveva un atteggiamento esistenziale teso a non preoccuparsi delle piccole cose. In pratica aveva la capacità di farsi scivolare addosso le banalità, concentrandosi unicamente sulle cose per lei davvero importanti. Quindi, adesso viveva concentrata solo sulla consapevolezza di quello che era davvero importante per lei, di cosa voleva dalla vita e di cosa si aspettava da questa: piccole cose, ma vere soddisfazioni; era concentrata sulla propria sopravvivenza.
Aveva deciso di accettare il fatto di non essere perfetta, ma anche di avere comunque tutto il diritto di commettere errori, di fallire e di soffrire quando il destino le remava contro; sempre con il dovere di rimettersi in piedi e imparare anche dalle cose negative.
Nel suo cammino era compassionevole con sé stessa e ora dominava il suo dialogo interiore con gentilezza. Non si comportava più con sé stessa come il suo peggior nemico, ma si rispettava e reinterpretava le sue paure. Ripensava a tutte le volte in cui era stata convinta di non essere in grado di gestire qualcosa, senza chiedersi il perché e ora riformulava quei pensieri, eliminandoli dalla sua mente, soprattutto pensando a quelle esortazioni fatte nei suoi confronti da persone che in fondo non la conoscevano e non la apprezzavano, regalandole solo giudizi senza alcun significato o fondamento.
Ormai lei aveva stabilito i suoi obiettivi e sapeva che poteva raggiungerli, si sentiva così più efficiente, capace, forte e motivata. Non si preoccupava delle sue sostanze economiche non troppo rassicuranti. L’importante era che oggi poteva sopravvivere, e se avesse preso in mano le redini della sua vita, il giorno successivo non sarebbe potuto che essere migliore.
L’importante per lei era aver realizzato che non avrebbe più permesso a nessuno di limitare il suo potenziale o di mettere in discussione le sue capacità. Voleva meritare e valorizzare tutto ciò che era, nel bene e nel male. Tutto questo era diventato la sua grande forza, e questa forza trapelava dai suoi occhi, non dalle sue parole, che centellinava solo quando era veramente necessario e solo con chi era pronto ad ascoltarla e lo meritava, con chi emanava un’energia e una profondità superiori al vuoto delle persone che si era lasciata alle spalle. Safaa era in grado di capire se una persona quell’ energia ce l’aveva, la sentiva subito, senza neanche guardarla negli occhi.
Ora aveva risvegliato in sé una forza perché agisse come un paracadute, per quando tutto precipitava, per quei giorni che di tanto in tanto sarebbero arrivati, in cui nulla era certo e all’orizzonte intravedeva solo buio.
Le sue risorse ora erano molte, ma parte della sua forza era quel proverbio arabo che diceva: “Non arrenderti: rischieresti di farlo un’ora prima del miracolo”.
Safaa allora aveva deciso di non buttarsi più giù nei momenti bui, e metteva in atto, giorno dopo giorno, in questa sua fuga verso la sua nuova vita, tutto l’ingegno, la resilienza, la capacità di azione e reazione che aveva. Quando inciampava, e la sua mente si incupiva e si raggomitolava su sé stessa, richiamava il suo respiro calmo per lunghi minuti, quasi a meditare un mantra, e ciò la caricava al massimo, per passare poi all’azione, andando subito a confrontarsi faccia a faccia con Quercia; la accarezzava e studiava un piano. Safaa cercava di capire lo stato d’animo di Quercia, ricercava la sua voglia di correre; mentre la ascoltava e ascoltava sé stessa cercava di comprendere se era il momento di restare a combattere, seduta e chiusa in sé stessa, o di abbandonare il campo di battaglia correndo lontano in cerca di altro dalla vita. Non era una fuga, ma un modo di combattere la sua battaglia.
I giorni passavano in modo naturale nella natura, proprio come avveniva per i suoi abitanti, esseri speciali, esseri animali; Safaa con Quercia camminava tutto il giorno, così, ora nella piena realizzazione del suo essere, non sentiva la solitudine, e questo forse per lei era un pericolo, lo aveva ben capito e diceva a sé stessa: “La solitudine è pericolosa, crea dipendenza”, cominciava ad aver paura di esserne diventata dipendente e pensava: “una volta che ti rendi conto di quanta pace c’è nella solitudine non vuoi avere a che fare con le persone”.
Safaa nei momenti in cui andava con una lenta andatura, talvolta pensava in modo intenso a Nafis, frequentato solo per pochi giorni, lui aveva il mistero e l’universo negli occhi; la rassicurava quando la guardava per interminabili secondi, e lei si sentiva rapita e abbracciata. Non poteva spostare il suo sguardo e la sua mente si soffermava sulle sensazioni ed emozioni da esplorare. Non sapeva definire tutto questo, fino a quando non arrivò a pensare che indubbiamente si trattasse della condivisione della profondità della vita, con chi, come lei, era alla sua ricerca. Iniziò presto a pensare che questa condivisione potesse forse essere amore, dato che non sapeva definirla, ma contemplava la possibilità che in realtà fosse amore universale, invece che amore vero e proprio per quello strano ragazzo. Forse era diventato parte della sua famiglia, del resto dopo tutto il tumulto emotivo che aveva forzatamente vissuto nei legami di sangue, da quando li aveva recisi, viveva una condizione di seconda vita del tutto luminosa e concretizzò solennemente un nuovo grande corollario di questa sua rinascita, ovvero: che la famiglia è fatta delle persone che tu scegli.
In ogni caso per lei adesso era il momento di vivere nuove esperienze, non di rintanarsi in un rapporto di coppia sterile, come quello che l’anno prima aveva vissuto per dei mesi con un ragazzo più grande di lei, del tutto deviato e vizioso, rischiando addirittura anche di perdersi, o come quelli che aveva visto tra i suoi compagni, forse più genuini, ma vere e proprie prigioni senza possibilità di crescita. Prima di qualsiasi unione o sigillo, adesso voleva crescere, formarsi e trovare il suo centro. Nafis era davvero molto strano: sempre assorto nel suo mondo, sembrava sempre senza uno scopo, senza cose da fare, quando invece il suo cammino era la riflessione e la contemplazione fatta persona. Era questo il costante lavoro di Nafis, ed era questo che lo arricchiva. Safaa ora pensava: “Posso non sapere bene cosa ci sia tra noi, ma l’importante è che lui sappia parlare direttamente all’anima, e questa è una cosa grande, molto di più del rapporto di coppia… forse famiglia, quella abbandonata e quella ritrovata”.
Lo doveva rivedere, così viaggiava verso di lui, spesso correva con la sua Quercia e talvolta si imbatteva in nuove esperienze, dimenticandolo.
Un giorno alcuni ragazzi che lavoravano i campi videro da lontano una ragazza dai capelli lunghi e neri che sembravano la criniera di un cavallo, che correva sul crinale delle colline. Così, presto si sparse la voce nei paesi circostanti della ragazza che correva, e molti amici la sera, quando si ritrovavano per raccontarsi le storie della giornata parlavano di lei, fino a quando quella storia non arrivò alle orecchie di Nafis a una ventina di chilometri di distanza, lassù nel suo bosco in vetta ad una collina sopra un antico paesello medievale.
In quel momento lui spalancò gli occhi e rimase fermo, immobile, un colpo al cuore lo trafisse; sentiva che poteva essere lei, Safaa.
Nafis da tempo sentiva che il mondo intero era nel caos e si era affidato al bosco, un rifugio in cui regnava la calma e cresceva la fiducia. Un rifugio mentale. Era la sua fortezza, era lì che ora viveva e organizzava piani di lotta con i suoi amici per la difesa dell’ambiente e di loro stessi da una società ormai del tutto malata.
Lui sapeva che se il futuro era incerto, l’unica cosa sicura da fare era essere sé stessi e andare avanti vivendo la natura, coltivando in essa i propri beni, i propri rapporti sociali, per combattere così il degrado materiale e valoriale imposto dalla società. Camminava verso il miglioramento, confrontandosi e aiutando gli altri ad aspirare al meglio, rispettando la madre terra e organizzando di tanto in tanto azioni di ribellione urbana e di sensibilizzazione sociale. Organizzava visite guidate nei boschi e vendeva le castagne e le marmellate che realizzava con sua nonna. Aveva parlato di questo suo progetto di vita con Safaa in quei giorni passati quando la conobbe, e adesso sentiva che lei non era lontana. Percepiva la sua presenza.
Nafis viveva sempre nel silenzio e sentiva solo la musica che gli alberi sprigionavano, e le energie a lui affini. Aveva imparato a fare questo grazie all’osservazione costante degli animali; viveva stando loro vicino e imitandoli, osservava e sentiva il mondo naturale esattamente come facevano loro, lo contemplava con i loro stessi occhi, era tranquillo in questo suo nuovo stile di vita.
Come gli animali percepiva il pericolo, ma sentiva anche suoni remoti, le energie vicine; ora percepiva quegli zoccoli lontani che correvano verso di lui, percepiva in qualche modo quel rimbombo lontanissimo e sentiva un nuovo e inaspettato calore dentro.
Safaa stava correndo, ma era ancora lontana.
Lei mentre correva pensava: “Arriva il momento in cui decidi di lasciare andare. Le persone che erano intorno a me, in cui avevo riposto speranze, mi hanno deluso; ebbene, che facciano le loro scelte, che prendano la loro strada, io sono responsabile unicamente della mia strada, ovunque mi porti, ma sarò solo io a sceglierla”.
Safaa aveva deciso di accettare i propri sbagli e di incontrare i propri demoni, di ascoltare cosa volevano, cosa chiedevano affinché potesse scacciarli via. Così correva con Quercia, la pelle del suo viso si era indurita dalla brina del mattino, era liscia e tirata, tirata come un arco carico verso il suo obiettivo, verso il suo futuro, gli occhi socchiusi a proteggersi dall’aria fredda del mattino e protesi verso il paesaggio che incontrava veloce passo dopo passo. Con quelle due fessure vedeva tutt’intorno a sé, ma si affidava anche all’udito, ai suoni della natura che correva con lei, in direzione opposta in uno scontro che era un big bang, un’esplosione, una fusione quantica. Quando percepiva la stanchezza di Quercia, rallentava per farla bere, talvolta su un corso d’acqua o uno dei laghetti che scorgeva in lontananza; trovava i punti migliori dove ristorarsi e ascoltare i propri pensieri, adesso liberi e spontanei e faceva bere e pascolare Quercia, anche per delle ore.
In quei momenti di pausa le prendeva un po’ di sconforto, i suoi sentimenti verso persone care, irrimediabilmente perse, sembravano grappoli d’uva che le rimbalzavano nello stomaco, e durava fatica a calmarli, rimuoveva i sensi di colpa, ma i grappoli rimanevano schiacciati nel suo stomaco sotto piedi invisibili e una forte acidità la prendeva.
Una sera, giunta nel territorio di Nafis, Safaa era tormentata; i suoi dolori interiori e le sensazioni di vuoto l’avevano di nuovo aggredita all’improvviso, ma ancora non sapeva che quei dolori, misti alle sue paure, erano anche soluzioni, illuminazioni. Così venne raggiunta da una nuova intuizione: “arriva il momento di accettare il dolore e di trasformarlo non in rabbia, ma in verità, in ricordi, in dolcezza, in nuovi propositi… una spinta propulsiva, costruttiva. Forse il momento per me adesso è arrivato, il momento in cui posso dichiarare pace al mio cuore, finire la guerra, quella guerra che se combattuta solo da dentro, è guerra persa; ciò non vuol dire smettere di combattere e rassegnarsi, ma decidere semplicemente di regalarsi la libertà, fare pace con se stessi, la leggerezza dell’essere. La battaglia interiore può essere vinta semplicemente con la volontà di essere forti con sé stessi, con un nuovo stato e bontà d’animo; lasciando scorrere e facendo pace le cose buone arriveranno da sole.
Ci saranno persone che mi sosterranno… qualcuno mi sosterrà”.
Aveva realizzato di avere toccato quel piccolo miracolo che rincorreva e che la rendeva finalmente libera, che portava il nome di ‘consapevolezza’; consapevolezza di essere viva, di sentire tutto l’ambiente intorno a lei che viveva e che pulsava, con i suoi suoni e le sue energie. Tuttavia quel grappolo d’uva talvolta continuava a muoversi dentro di lei provocandole quegli strani dolori al diaframma, lasciandola senza fiato, grandi dubbi ristagnavano dentro di lei: una montagna di mosto che fermentava dentro, insinuandosi nelle sue cellule, nel suo sangue portandola ad un torpore mentale da cui si risvegliava con fatica.
Si stava facendo sera e finalmente trovò un posto ideale dove fermarsi per passare la notte a ritirarsi per mettere calma dentro sé stessa, e per far ristorare Quercia. Era una grande prateria ai piedi di un boschetto, dove scorreva un fiumiciattolo di acqua chiara e fresca. Da lì sentiva in lontananza una musica provenire da un lontano paesino in vetta ad una collina verde; era un suono di cornamuse; doveva esserci una festa paesana dagli spunti medioevali e celtici. Le teneva compagnia. Così in quel luogo unico, dietro ad un piccolo fuoco acceso per scaldarsi, riuscì a ritrovare sé stessa e grazie a quei suoni magici che la avvolgevano, dimenticò i suoi dolori e decise che l’indomani avrebbe costruito il suo nuovo flauto, un flauto magico. Dopo aver attinto alle ultime sue provviste, si addormentò rannicchiata nel suo sacco a pelo, sotto a delle stelle brillanti, con la musica che ancora suonava e la cullava; la sua mente immaginava come fare i fori del suo flauto che già suonava in testa, trasportata da un’energia unica di quella musica, di quella notte.
La mattina seguente Safaa si svegliò molto presto con un concerto di cinguettii dalle mille note, e con quell’idea fissa nella testa, si diceva che la musica risale a circa il 40.000 avanti Cristo, e se i primi strumenti sono stati creati da uomini senza alcuna competenza, anche lei con le sue conoscenze avrebbe potuto farlo direttamente da un ramo di un albero. Aveva con sé gli strumenti adatti, un punteruolo e un seghetto, e un coltello multiuso, ma non sapeva quale legno usare. Si girò intorno e vide una grande magnolia. Si sciacquò il viso nel fiume e lì vi trovò delle ideali canne di bambù di ogni misura e consistenza, ottime per il suo progetto; quindi scelse accuratamente la più idonea, e tornata alla postazione, rivide la magnolia, perse un’ora per decidere e confrontare i rami, fino a quando scelse un bel ramo dritto della magnolia e optò per questa. Realizzò però che per forare tutto il legno non sarebbe bastato il punteruolo, serviva un trapano e un banco da lavoro, per cui ritornò alla canna di bambù che le avrebbe permesso più velocemente di creare il suo flauto traverso. Passò l’intero giorno a lavorare col suo punteruolo, il coltello appuntito e il seghetto; alla sera nacque un magnifico e ben funzionante flauto: il suo flauto magico, in seguito fonte di balli, armonia, amicizie, e anche fonte di reddito. Aveva passato intense ore alla ricerca maniacale della perfezione totale, dove i suoi occhi, le sue dita, tutti i suoi sensi erano concentrati su quel piccolo legno da modellare. Arrivò la sera e si lasciò andare un’ora buona nella sua pratica yoga dedicata al respiro e agli allungamenti muscolari, mentre Quercia pascolava e sorvegliava sempre attenta alla sua compagna e ad ogni rumore. Poi mangiò un poco degli ultimi pezzi di pane che le erano rimasti, con dei pomodori secchi e al mattino seguente si incamminò con Quercia verso quel paesello, mossa da grande entusiasmo e curiosità, da voglia di vedere gente, da voglia di sentire musica, da voglia di fare festa e di fare musica.
Si trattava di un paese non grande, antico, con una lunga strada fatta di pietre che lo attraversava da cima a fondo, e viuzze laterali che come delle arterie si diramavano raggiungendo le mura che lo circondavano. Si rese conto che era un antico castello, arroccato in cima alla collina; lassù c’era una visuale a 360 gradi che spaziava su vallate e boschi. Lungo la strada centrale vi erano due bar e un negozietto di alimentari. Mentre Safaa la percorreva, vide dei gruppi di artisti che provavano i loro strumenti, cornamuse e mandolini, una ragazza provava la sua arpa. Muoveva le note come farfalle, e un’altra insieme a lei l’accompagnava con un magnifico flauto di Pan, anch’esso realizzato con canne di Bambù. Poi, leggendo un manifesto pubblico, capì che alla sera, prima del tramonto, sarebbe iniziato un festival di musiche popolari antiche. Le si illuminarono gli occhi e decise di restare. In attesa dell’evento passò la giornata approfittandone per comprare delle provviste al negozio di alimentari.
Poi trovò la sua posizione lungo la strada centrale del paese e, mentre Quercia si riposava accanto a lei, si adagiò a terra con le gambe incrociare a provare il suo nuovo flauto per la sera, col coltello continuava a modellare i fori, finché questo non iniziò a suonare perfettamente e magicamente, emettendo un suono antico. Suonava note ancestrali che venivano da lontano, orchestrate da anni di ascolto, di maestria, di prove e di sentimenti perduti. Si esercitava sempre da piccola su quelle note antiche che rapivano il suo spirito, e con esse, quella sera lei stessa avrebbe rapito le persone.
A qualche chilometro di distanza un amico di Nafis raggiunse quest’ultimo nella sua dimora nel bosco per raccontargli di quella strana cosa.
Mentre Nafis era impegnato a preparare un orto biodinamico, con zappa e sudore, l’amico gli raccontava di un evento particolare. Nafis non gli dava peso, non lo ascoltava neanche, continuando a zappettare in silenzio, fino a quando l’amico non pronunciò quelle parole:
“Nafis… e ascoltami una santa volta; è arrivata in paese la ragazza col cavallo che corre. Non parla con nessuno e si è messa seduta in un punto destinato agli artisti per l’esibizione della sera. Sta facendo le prove con un flauto traverso; tutte le persone sono rimaste incantate dalla sua musica, dicono che nei suoi occhi si vede una grande forza e spiritualità, sono occhi che vedono lontano. Stasera ci sarà una grande festa!”.
Nafis, che aveva lasciato cadere a terra la zappa a metà dell’ascolto del racconto, spalancò gli occhi e guardò verso il paese… non ci poteva credere, forse era proprio Safaa! Lei gli aveva fatto sapere della sua fuga, e che avrebbe attraversato i grandi boschi della loro regione per passare proprio nelle zone dove viveva e che sarebbe andata a trovarlo. Erano passati lunghi mesi da quando l’aveva conosciuta e il suo ricordo gli rendeva la vita più dolce, ma anche amara: pensava che non l’avrebbe più rivista.
Andò a farsi una doccia dietro casa; aveva costruito un impianto di acqua piovana a caduta per risparmiare acqua e così faceva sempre la doccia fuori sotto al suo grande albero, come pure lavava le sue cose fuori dalla casa di sua nonna. Anche lui aveva lasciato i genitori e la città, ormai si era stabilito da lei, e non voleva procurarle alcun peso, poi non era cosa buona consumare acqua. I suoi principi ambientalisti rappresentavano il suo primario stile di vita. S’ infilò una maglia bianca di lino con uno scollo a V con dei bottoncini e laccetti, i suoi pantaloni di cotone rosso sbiadito; ripulito di tutto punto, si asciugò quei capelli che rimanevano sempre spettinati con un panno pulito, e infine con l’amico si misero in cammino verso il paese. Due ore, solo due ore di dubbi, di ansia che cresceva e di passi contati uno ad uno con gli occhi dritti verso quelle lontane mura che piano piano si facevano più grandi, sotto ad una grande luna piena che cresceva sempre di più sul paese, mentre il sole dietro le spalle di Nafis calava sempre più piccolo, soppiantando la sua ansia e avvicinandolo a quella luce lunare che lo liberava dalle sue paure caricandolo pian piano di vigore.
A breve la pubblicazione del cap. n.7 "L ’incontro"
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La Ragazza che abbandonò il Destino
La Storia di una ragazza in fuga
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