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I mosaici e il loro mistero

Camminarono ore, giunsero alla stazione ferroviaria a metà mattinata e presero il primo treno con direzione Genova dove arrivarono a metà pomeriggio; dopo un’altra mezz’ora di cammino giunsero finalmente sul mare e trovarono un biglietto per imbarcarsi su una grande nave; una traversata di due giorni e mezzo per arrivare a Tangeri dove avrebbero preso un altro treno che li avrebbe poi portati a Sud-Ovest, alle porte del Sahara.
Su quella nave cominciarono subito a respirare un mondo tutto nuovo, attraente, facce diverse, modi diversi di essere famiglia, madri con bambini dagli occhi scuri e sguardi luminosi, profondi e curiosi, dalla vivacità pacata.
Nafis e Safaa a breve sarebbero stati catapultati in un mondo fatto proprio di quello che cercavano: cose semplici, umanità e vita che scorreva naturalmente, senza eccessi, che percepirono essere spinta da un potente motore nascosto che permetteva ad ognuna di quelle persone di vivere pacificamente, a contatto con i propri affetti. Guardandole percepivano quel motore nascosto mosso da amore e da una sconosciuta umiltà dell’essere.
Nella realtà dove si erano voluti addentrare, dura e scolpita dal sole, si trovarono di fronte ad un’umanità differente, altri valori, altri colori, tenui, i colori del deserto, naturali, che spesso le ragazze berbere di montagna si davano sul viso, qualcuna di loro senza alcun velo in testa, a mostrare la loro unicità e indipendenza. Gli scambi di affetto tra le persone in quei luoghi erano anch’essi naturali, erano dei sostegni l’uno verso l’altro, come i colori, che miscelati tra loro danno altri colori: piccoli scambi, ma ricchi, ricchi di gentilezza, ricchi di novità, di stupore l’uno per l’altro. La povertà che i tre ragazzi percepivano tutt’intorno era un elemento di pregio, sconosciuto nell’accezione triste che in occidente viene data alla condizione di povero, forse perché tale condizione non è ben vista nell’emisfero occidentale, e quindi neanche ben vissuta da chi si trova ad affrontarla.
In quel paese Safaa e Nafis trovarono tale condizione come un fatto naturale, accettato normalmente come elemento delle cose, uno degli elementi dell’esistenza, dove tutte le persone passano prima o poi e ci permangono del tempo, forse per sempre, ma che non condiziona l’essenza della vita, né la dignità, soprattutto agli occhi degli altri. Una persona è una persona, con tutta la sua pienezza e tutti i suoi valori. Una povertà che era sopportata come si trattasse di un costante caldo vento dal deserto, una povertà sdoppiata, che da un lato poteva pungere lo stomaco, ma che dall’altro lato faceva dimenticare tutto nel momento in cui intorno ad un tavolo marocchino le persone condividevano del cibo dallo stesso Tajine, restituendo pace e sorrisi negli occhi alle persone, l’una con l’altra, a ricordare di dover vivere al meglio minuto per minuto anche nella peggiore delle situazioni, ma sempre con le amicizie e gli affetti scolpiti nella mente.
“C’è forse un mistero in tutto questo, forse è racchiuso nei colori naturali di quei posti” pensava Safaa, “un mistero quasi incomprensibile per noi europei, americani, australiani, giapponesi, russi e anche cinesi: un altro mondo parallelo, vicino e lontanissimo, diverso e unico.”
Una serie di incredibili mosaici lo avrebbe presto svelato a Safaa e a Nafis lungo il loro cammino, mentre Khalil, sempre più radioso dentro, non aspettava altro, sicuro del suo imminente disvelarsi davanti ai suoi due amici, non fosse altro che per lo spirito di osservazione che questi portavano sempre con loro.
Tutto iniziò il mattino in cui i tre ragazzi scesero dalla nave con i loro zaini, e passato il controllo dalla polizia di dogana, la polizia reale, si incamminarono lungo la costa verso il centro cittadino, dove avrebbero potuto prendere il treno per raggiungere la prima tappa, El Jadida sull’Atlantico.
Camminando guardavano il mare che brillava forse in modo diverso, forse per un effetto psicologico sapendo di vederlo per la prima volta da Sud, dall’Africa, da dove partono i dimenticati del mondo, forse per il vento dell’oceano, ma brillava forte. Non potevano non guardarlo, e tutti e tre camminavano rapiti, era una meraviglia; davanti ai loro occhi, in lontananza, intravedevano la costa spagnola. Safaa e Nafis erano stupefatti nel vedere come l’Europa fosse così vicina e così lontana, rispetto a quel paese che appariva subito essere una diversa dimensione. Quindici chilometri di mare separavano due mondi lontanissimi nel tempo e nella cultura.
Il primo elemento del mosaico era la percezione della temperatura; la forte temperatura non era opprimente, era molto piacevole, era un elemento inaspettato. Quel clima secco, col vento che arrivava diretto dall’oceano, concedeva una sensazione di libertà tutta nuova e diversa; il semplice camminare su quella terra rappresentava un diverso modo di approcciarsi alla vita, dava ai ragazzi una sensazione di completezza e di libertà. Safaa e Nafis contemplavano in silenzio l’immenso orizzonte, mentre con i passi che avanzavano uno dopo l’altro spediti, non vedevano l’ora di addentrarsi nella vita di quella prima cittadina per assaporarla, per provare a capirla.
E così fecero, non appena raggiunta a metà di quel mattino. Entrarono in un bar pasticceria ventilato grazie a delle pale che giravano piano. Le decorazioni bluastre su pareti bianche, sembrava che contribuissero ad attenuare, o a non far caso al calore che cominciava a farsi forte. Vi era una grande varietà di dolciumi, vi erano paste e cornetti esposte su un bancone, oltre il quale delle donne col velo sulla testa, dai tratti somatici dolci e dagli occhi impenetrabili, erano indaffarate a servire i clienti, con un’incredibile intesa tra di loro, come fosse una perfetta squadra allenata magistralmente da un invisibile maestro. Si sedettero tutti e tre sotto a quelle ventole che di fatto smorzavano la calura, e dalla sala ombrosa che dava sensazione di freschezza, adornata di pochi sobri arredi etnici Bohémien, che lasciavano spazio alla mente. Osservarono fuori dal locale il forte bagliore del cielo con il suo potente sole africano, che sembrava una cartolina. Con gli occhi abbagliati chiesero la colazione: spremuta di arance, cappuccino e dei grandi cornetti. La divorarono, ma piano piano, con attenzione, per non finire presto il piacere di assaporare anche quell’atmosfera nuova e imprevista. Mentre mangiavano osservavano quelle donne che con dedizione portavano le paste sul bancone, con un velo sulla testa che evidenziava la bellezza dai lineamenti sottili, con abiti lunghi indosso che le facevano sembrare delle monache. Lo stupore di Safaa e Nafis non era tanto per quel velo sulle loro teste, tanto bistrattato in occidente come presunta imposizione, che in realtà donava loro un’apparenza dolce e sacra; erano i loro modi di fare, di parlare, il loro portamento, la loro calma e sicurezza, gli occhi scuri e fermi, presenti, ma allo stesso tempo assenti, dato che i loro sguardi non si concedevano a nessuno, che tuttavia sembrava tutto vedessero, i loro sorrisi impercettibili che si scambiavano fugacemente donavano loro una sacralità lontana nel tempo; un’umanità mista ad una naturale femminilità che sbocciava nella melodia dei loro movimenti e dei loro gesti. Melodia che, come quel velo, non sembrava imposta proprio da alcun uomo o regime, ma che pareva una disciplina incardinata in loro, forse mossa da un antico retaggio culturale che segnava loro il cammino e i confini, lasciando all’interno del loro fiume il controllo e il piacere di tutta l’acqua che vi scorreva.
Passarono un’ora in quel caffè di un altro mondo, sentivano tutto il sapore di un’atmosfera calma, dalla presenza di antichi modi di fare, mistica, sin dall’estetica, senza ostentazione alcuna di quel misticismo, tutto connaturato all’ambiente.
Era un mondo sacro nella semplicità dei modi e nella ripetitività dei gesti quotidiani, con sapori, suoni, colori, cultura e valori radicati in ogni singola persona, percepibili in ogni sguardo, in ogni angolo.
Erano ora ben rifocillati, con gli occhi, la mente e lo spirito avvolti da quell’angolo di mondo col tempo immobile, forse il suo fascino, forse perché dotato di un garbo nei modi a noi sconosciuto, o per la ricchezza di colori, ben descritti da mosaici rinvenibili in ogni dove, dai corridoi, ai bagni che parlavano di mare e di terme, di abbandono e di attesa. Guardavano la forte luce esterna al locale che accarezzava i loro volti in quella penombra appena illuminata dalla vita la fuori, in quell’incomprensibile splendore si stavano perdendo. Avevano completamente perduto la cognizione del tempo e se Nafis non avesse risvegliato la mente degli altri con un forte “bon… è l’ora”, sarebbero tutti rimasti lì seduti, ipnotizzati, per ore a bere tè alla menta, scavando e volteggiando nei loro pensieri liberi, imitando i gabbiani là fuori.
Quando uscirono si ritrovarono nel caos di una grande strada con gente, negozi e caffè, un gruppo di ragazzi tra i quindici e i quarant’anni stava palleggiando con un pallone, erano pieni di entusiasmo; c’erano i mondiali di calcio in Qatar e il Marocco stava navigando a gonfie vele, regalando grandi feste alla sera nei bar, dove per l’occasione erano ammesse anche le ragazze ad esultare e festeggiare, dopo il digiuno giornaliero per il Ramadan. Poi riprendeva la normale routine, con le preghiere prima dell’alba, che prendeva avvio dal suono di corni in ogni quartiere, rituali antichi e presenti, che quel popolo non sognava lontanamente di abbandonare, una presenza costante, parte di ognuno; quei suoni scandivano il tempo immobile, certo, lentamente verso un futuro né certo né ricercato. Ma tutto scorreva sicuramente verso una pace sicura, che donava benessere, un benessere dell’essere da non ricercare, che semplicemente è, è sempre lì, pur dentro a confusione e povertà; verso una dignità, come dentro ai margini sicuri di quel fiume di acqua chiara, controllati da quelle donne, e tutto ciò che stava al di fuori di quei margini non interessava a nessuno: il resto del mondo, i conflitti, la Russia, il blues, il jazz, il teatro, Dante Alighieri, lo yoga, gli yuppies, gli hippy, l’arrivismo, la moda di Parigi, il consumismo dell’occidente, il Comunismo… tutto rimaneva al di fuori dei margini di quel fiume. A scorrere rimaneva l’istruzione dei giovani, la carità, la pulizia personale, la preghiera, la musica tradizionale e il mangiare, reso sacro dalla buona compagnia, il colloquiare quieto, circondati da quella povertà, accettata normalmente come elemento naturale, dato che i beni in quel paese non sono sufficienti per tutti.
Con lo spirito alto s’incamminarono verso la stazione dei treni e presero il primo convoglio per Casablanca, poi cambiarono per Oualidia, la città di Khalil. Le carrozze erano spartane, ammiravano il paesaggio col rumore del treno che li cullava e con il vento caldo che entrava. Respiravano intensamente, con gli occhi cristallizzati sul paesaggio, il sapore del viaggio; c’erano persone di ogni genere e provenienza, chi vestito in modo occidentale con pantaloncini, camicia e ciabatte, chi con il tipico abito lungo, il Jabador.
Khalil e Safaa intrapresero un cordiale dialogo con un ragazzo marocchino, sul clima, sui luoghi impervi del Sud e sulle sue popolazioni, mentre davanti a loro era seduta una donna vestita con una lunga tunica nera, con un foulard dall’intenso color indaco poggiato sulla testa e una treccia di capelli neri e lisci che usciva dal velo e le scendeva sulla fronte lambendo le sottili sopracciglia nere, adagiandosi sulla sua spalla sinistra per poi scorrere giù, intrecciandosi col velo; aveva occhi grandi tra il blu e il grigio, brillanti e imperscrutabili, viso magro, pelle dorata scura, con delle leggere decorazioni realizzate con terra arancione, sul naso e sotto gli zigomi, labbra tinte di un colore che ricordava la terra scura e calda dei monti, che esprimevano fermezza; la dignità di essere nata donna Tuareg trapelava da ogni suo elemento, fino ai suoi gentili e soffici movimenti. Apparteneva ad un popolo che era riuscito a sopravvivere per secoli in una delle zone più impervie ed inospitali della terra, il grande deserto del Sahara. Una donna Tuareg, un’eccezione nel panorama arabo. Donne che vivevano una condizione pressoché unica in quel mondo, per certi versi progressista, anche rispetto alle condizioni di vita occidentali. Pur essendo musulmane rispondevano a tradizioni e codici di comportamento molto più antichi di quelli islamici. Le donne Tuareg abitualmente non portavano il velo e decoravano i loro bellissimi volti scoperti, grazie alla loro grande creatività, con i colori del deserto, rendendoli ancora più seducenti, ma non per permettere agli uomini di ammirare la loro bellezza; i loro volti non erano qualcosa da nascondere o da mostrare, ma da tenere in grande considerazione.
La ragazza parlava con una donna della sua terra, parlava delle montagne intorno a Marrakech, dove era diretta per incontrare una cugina che non vedeva da tempo. Il suo modo di parlare era limpido e discreto; non sapevano come, ma esprimeva la sua appartenenza a quel mondo, e pareva essere una donna libera. Safaa iniziava a porsi delle domande, dato che nel suo mondo occidentale correva voce che le donne nel mondo musulmano non erano libere in quanto costrette a portare il velo, o a fare questo o a fare quello, mai da sole. Si domandava: “Ma chi costringe una donna giovane e sorridente che viaggia da sola?”.
La domanda al momento rimase senza risposta.
Giunti alla sera a Oualidia i tre ragazzi presero un autobus per recarsi nella piccola casa di Khalil, in un quartiere tranquillo. Giunti sul posto trovarono delle persone magre all’ingresso del quartiere che Khalil salutò calorosamente con abbracci e sorrisi. Nafis e Safaa si guardavano intorno incuriositi; pur trovandosi in una città caotica del Marocco, la strada dell’abitazione di Khalil era molto tranquilla, con biciclette e motorini al suo ingresso. Poco più avanti c’era una grande tenda che fungeva da Moschea. Khalil disse loro che quelle persone erano i guardiani del quartiere, pagati collettivamente da tutti gli abitanti per controllare e garantire la sicurezza.
Quelle persone erano sempre lì, all’ingresso del quartiere, giorno e notte, e salutavano con calore e una composta serietà, tutti coloro che entravano e uscivano; serietà dovuta a quello che sentivano essere un importante ruolo di guardiani, che esprimevano con fierezza, si sentivano utili, sapevano di svolgere un ruolo importante per tutti e ciò li arricchiva di orgoglio, dato che guadagnavano per il servizio reso solo poche dirham al giorno, oltre le mance. In quel paese era normale dare una mancia per qualsiasi cosa, tutti prestavano qualche servizio per gli altri e si aspettavano sempre questa piccola ricompensa; come pure il chiedere elemosina, in questo paese era un fatto concepito come normale, che non toglieva dignità a nessuno e le persone se avevano qualcosa in tasca lo davano volentieri a chi aveva bisogno.
Khalil disse a Safaa che uno dei cinque dettami della religione del suo paese era quello di fare l’elemosina a chi aveva bisogno, con una cifra corrispondente al decimo del proprio stipendio.
Safaa pensò: “Ecco il perché della sensazione di normalità nell’offrire un’elemosina: è una cosa naturale per chiunque, per chi la chiede e per chi la fa, non è solo un dovere, è un fatto culturale incardinato da secoli nella cultura di queste persone, un po’ come avviene anche da noi, ma moltiplicato nel sentimento popolare all’ennesima potenza.
Era quasi buio e Safaa e Nafis rimasero colpiti quando passarono davanti ad un palazzo con dei mosaici alle porte, dove le persone entravano in ciabatte e con una borsetta, erano tutti uomini, qualche ragazzo e qualche bambino col proprio padre. Safaa e Nafis chiesero a Khalil di cosa si trattasse, e questi rispose: “E’ l’Hammam, una sauna di quartiere, dove tutti vanno almeno una, due volte a settimana a rilassarsi, sdraiati sul pavimento bagnato e caldo, a socializzare”.
“Wow, domattina andiamo!”, esclamò Safaa. “Certo, ma solo se domani è accessibile alle donne,
di solito i giorni dispari entrano gli uomini e i giorni pari le donne.”
“Mmmhhh” fece Safaa, increspando la fronte dietro a questa informazione.
Safaa e Nafis seguirono Khalil sino al portone di casa sua, entrarono e salirono per tre piani, sei rampe di scale, che con il peso degli zaini, sembrarono essere una prova; quando giunsero nell’appartamento fu una liberazione, non solo per l’abbandono della zavorra, quanto nel trovarsi di fronte a quel salotto marocchino. Era un piccolo tempio dai divani bassi e colorati disposti a forma di ferro di cavallo: tutto il pavimento della sala era coperto da tappeti, al quale si accedeva rigorosamente scalzi, al centro vi era un tavolo basso. Liberati dagli zaini, si sentivano ora liberi, meravigliati da quella stanza che li catapultava del tutto in un altro mondo.
“Ragazzi,” disse Khalil, “ora rilassatevi e sedetevi, vi faccio un tè e vado a comprare un po’ di cose da mangiare. Questo è il tipico salotto marocchino, ce n’è uno in tutte le case: qua serviamo il tè agli ospiti, la sera le donne e le ragazze vi cenano insieme, qualcuna si sdraia e dorme, mentre le altre conversano e qualcuna canta. Questa è la nostra vita, ma è impossibile spiegarvi cosa rappresenti per noi”, lasciandoli un po’ perplessi.
Safaa disse a Khalil: “Come, non è una cosa normale quanto stai raccontando?”.
Ma lui le rispose semplicemente: “Capirai”, e servì loro il tè.
Adagiatisi sui divani, dimenticarono subito tutti i loro dubbi ed entrarono completamente nella nuova realtà.
Sorseggiarono il tè in quel salotto magico, quando ad un certo punto udirono uno strano suono che sembrava emesso da un corno, e a seguire una strana cantilena. Safaa rimase stupefatta e cullata, così com’era, ora sdraiata, da quel dolce suono e da quella mistica voce, poi capì che era la lettura dei versetti del Corano che risuonava tutt’intorno tramite dei megafoni, per tutte le persone del quartiere.
Khalil disse:
“Scendo 10 minuti, vado alla moschea e poi a comprare qualcosa”.
Safaa voleva andare con lui a vedere com’era la cosa, ma questi le disse che non sapeva se c’era il reparto donne, così di nuovo lei esclamò:
“Mmmhhh… già! Ma che storia!”. E Nafis disse:
“Vengo io. Voglio vedere e provare anch’io cosa si sente nella moschea, visto che da noi non sento un granché nelle chiese, se non il fascino delle architetture e dell’arte, e la mia preghiera a Dio mi restituisce intensità solo nella natura, attraverso l’incontro della sua immensità, ad esempio con l’aria pulita e ricca di elementi, gli alberi che con le loro connessioni energetiche mi parlano, poi gli occhi degli animali che scrutano e cantano come inneggiando alla natura”.
“Capisco” rispose Khalil, “adesso forse troverai un altro misticismo. Andiamo”.
E fu così che scesero tutti e tre insieme. In fondo alla strada buia c’era una grande tenda: era la Moschea del quartiere verso la quale molti abitanti con indosso lunghe tuniche, si incamminavano silenziosi con passo deciso, come verso una missione. La piccola Moschea era stata realizzata artigianalmente dalle persone del quartiere per pregare più volte al giorno e anche la notte, nel mese del Ramadan.
Più i ragazzi si avvicinavano e più percepivano le preghiere cantate.
Sulla strada c’era un lungo tappeto rosso dove le persone che non riuscivano ad entrare nella Moschea si fermavano con i piedi scalzi. La lettura dei versetti fatta con tono di voce altalenante avvolgeva le menti dei tre ragazzi; anche se Safaa e Nafis non conoscevano la lingua, quel suono li scaldava dentro. Quella lingua, quel suono, quella musicalità nella lettura, trasmetteva dei messaggi toccanti e Safaa, entrata nel reparto della tenda dedicato alle sole donne, imitando i movimenti delle altre, sentiva avvenire come una sorta di pulizia nella propria mente, percepiva una liberazione, e allora si lasciò trasportare da essa, e insieme a quelle letture si sentiva cullata. Si sentiva adesso in una dimensione lontana, lontana da sé stessa, in una beatitudine inaspettata. Nessun altro pensiero la attirava, il tempo si era fermato e adesso lei non attendeva la fine di quella preghiera, a cui mai aveva partecipato.
Quando regnò il silenzio, la preghiera era finita, ma lei non se ne accorse, era in uno stato di pace, accovacciata sulle ginocchia come spesso stava nella posizione del bambino, quando faceva yoga, poi una mano sfiorò la sua mano e le sussurrò:
“Taali ya okhti”. Credette di comprendere il significato di quelle parole e si alzò. In seguito seppe che significavano: “Andiamo sorella mia”.
Si allontanò piano, con le altre donne che andavano ognuna verso la sua abitazione, in silenzio, senza parlare l’una con l’altra; era una processione individuale e collettiva, ognuna portava a casa la propria spiritualità, una nuova ricchezza.
Rientrata in casa, trovò gli amici intenti a mangiare della frutta, si soffermò appena un po’ con loro e bevve giusto un tè, per riflettere su quella cosa appena vissuta, assaporandone l’essenza e stringendo nelle mani il bicchierino caldo; non condivise i suoi pensieri con gli altri, aveva bisogno di tenerseli per sé. Era una cosa troppo unica e intima, e così guardava il bicchiere fumante incurante dei suoi amici. Finito quel ristoro misto a riflessione, andarono tutti insieme ad adagiarsi sui loro letti. Dopo quella giornata lunghissima e quell’ondata di spiritualità finale, percepivano la loro stanchezza come un bambino da cullare, e il suono del silenzio che arrivava dai corni fuori dalle finestre era come un’avvolgente coperta.
Quel suono veniva da lontano e si faceva sentire bene in mezzo al silenzio della città buia ricca di lucine e ombre di palme. Attraversava i campi, fino al campo da calcio sotto casa, e la notte cavalcava ora la città fatta di una distesa di case bianche, pennellate dalla luna, amalgamate con quel cielo blu stellato africano. In un infinito attimo vennero tutti e tre rapiti da un sonno travolgente.
Al mattino presto, intorno alle 5:00, il suono del corno si rifece vivo, e mentre Safaa stupita lo percepiva appena, aprendo leggermente gli occhi, arrivò di nuovo dai megafoni della strada la lettura dei versetti, ma lei non si svegliò del tutto e rimase a lungo avvolta da quelle letture: erano sempre più familiari, toccanti, e alla fine la portarono a perdersi di nuovo nel sonno, adesso come su di un tappeto, nella pace più profonda, in un misterioso mosaico di colori che attraversavano i suoi sogni.
Non era una pace normale, era una sicurezza, una totale liberazione, e le sue mani erano morbide. Non voleva riaddormentarsi, così da poter ricordare i sogni di quel momento, i pensieri e le sensazioni della serata trascorsa, ma quel ritrovato benessere la prese e la trascinò via senza darle il tempo di assaporarne la consapevolezza. Safaa in un attimo di lucidità volle inquadrare il mistero di quello stato, di quel sentire, per poterlo trattenere per riprenderlo con sé prima o poi. E si perse subito nel sonno ma non prima di essere riuscita ad osservare un frammento di sensazioni, ne vide la luce e ne trattenne il calore.
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