Cap. 22 Il segreto degli uomini blu - da La Ragazza che abbandonò il Destino
- Alessandro Niccoli
- 27 giu
- Tempo di lettura: 9 min

Si insinuarono sino alle porte del Sahara, ove gli unici abitanti riusciti a convivere con quell’ambiente erano i Tuareg, uno tra i popoli che più notoriamente riusciva a sopravvivere nel deserto.
Safaa, che ormai da tempo aveva sviluppato un forte istinto nomade, aveva una gran voglia di conoscere e capire questi pastori nomadi del deserto, lontano ricordo dei fieri “uomini blu”, berberi per caratteri fisici e lingua, nomadi cammellieri dalla pelle chiara e ambrata, spesso colorata di blu, temuti perché ritenuti possessori di poteri magici, tanto che città come Marrakech avevano eretto, col proprio Sultano, intorno al 1100 imponenti mura alte dieci metri con duecento torri e venti porte di ingresso, per difendersi da loro.
Safaa e i suoi amici erano giunti nell’ultimo paese alle porte del deserto dove case e alberghi si ergevano come castelli di sabbia, formando un tutt’uno con la terra bruno-rossiccia. Qua e là vi erano alberi più rigogliosi di quanto Safaa si sarebbe aspettata sul deserto. Alcuni alberghi erano protetti da mura e torrette, e avevano piscine che si affacciavano sulle dune. Ma nonostante il caldo, Safaa non sentiva il desiderio di tuffarcisi, aveva una gran voglia di vivere il deserto, non di fuggirlo.
Così si comprò una lunga striscia di tela, allo scopo pratico, come usato dai Tuareg, di impedire che la sabbia in sospensione potesse penetrare nelle vie respiratorie e al tempo stesso per ridurre l’eccessiva secchezza delle mucose causata dal vento, dall’elevata temperatura e dall’aria secca. Khalil e Nafis, fidandosi delle conoscenze dell’amica, fecero lo stesso.
Safaa ad un certo punto disse loro: “Ragazzi ma lo sapete qual è il vero scopo per cui indosseremo questi teli?”
Khalil stupefatto, dato che non poteva essere che Safaa ne sapesse più di lui, rispose con la fierezza di colui che nasce da quei luoghi: “Non vi sono altri scopi oltre quello che hai detto, cioè, proteggersi dal vento. Brava!”
Al che lei rispose: “E’ credenza tra i Tuareg che questi teli servano anche ad impedire che gli spiriti delle sabbie, talvolta maligni, i ‘Jinn’, che i cammellieri possono incontrare nei loro spostamenti nel deserto, penetrino nel corpo attraverso le vie respiratorie facendolo ammalare.”
Khalil mentre sceglieva il suo mantello, alla risposta di Safaa, scavava nelle sue reminiscenze di racconti uditi da piccolo per trovare conferma a quelle parole, e nel dubbio rimase in silenzio; scavava e rifletteva, come al solito, di fronte alle parole dell’amica.
In quella ultima città di frontiera alle porte del deserto tutti erano vestiti con mantelli dai colori tenui, c’erano dei gruppetti di turisti pronti a partire in groppa a dromedari, ormai usati solo per far provare l’esperienza del deserto ai curiosi visitatori occidentali.
Mentre Khalil espresse agli altri il desiderio di fare quell’esperienza, trovò la disapprovazione di Nafis e Safaa, la quale si disse contrariata dal fatto di sfruttare questi animali in quel modo, solo per scopi turistici, oltretutto tutti e tre si erano sempre dichiarati inorriditi dallo sfruttamento dei cavalli da carrozza nelle loro città europee. Khalil ancora una volta rimase perplesso, ma non poté ribattere in alcun modo perché lei aveva ragione. Nessuno di loro se la sentiva di andare a fare l’esperienza nel deserto cavalcando quegli animali dagli occhi buoni e lungimiranti, quindi girarono per quel luogo antico a cercare di comprenderlo nei suoi angoli più nascosti assolati e ombrosi, colorati, ricchi di mercanzie e spezie; osservarono quelle genti, i loro volti seminascosti, i colori soffici, quegli scuri e mistici occhi del deserto.
Finirono in cima a delle mura dove c’era un piccolo locale che offriva dolcetti, tè e narghilè. Safaa ordinò tutto quello che poteva: dolci, salati, datteri, e tè per tutti e tre; un ragazzo dal viso leggermente tinto di blu indaco che sembrava proprio il suo colore naturale, li servì con gentilezza. Mentre consumavano potevano ammirare l’immensa prateria desertica con un tramonto mozzafiato e una pace antica, che li avvolgeva attirando le loro anime fino alla fine del mondo, questo sembrava quell’ultimo lembo di civiltà alle porte del deserto sahariano.
Safaa non aveva mai visto dal vivo un uomo blu, quel ragazzo ne era un discendente e manteneva le tradizioni dei suoi avi, anche se ormai la sua immagine così misteriosa aveva forse scopi più turistici, ma il suo fascino invadeva comunque di grande curiosità e stimoli, lasciava intravedere qualcosa di impercettibile sul senso della vita. Quel colore, ricavato dalla fermentazione di fiori di indigofera tintoria, fissandosi sulla pelle del volto per effetto della sudorazione, aveva originato la leggenda dei temuti “uomini blu” del deserto, che un tempo controllavano le piste carovaniere ed esigevano il pagamento di tributi dalle popolazioni sottomesse e dalle carovane che solcavano i loro territori.
Oggi i Tuareg dopo millenni hanno cambiato il loro modo di vivere, e per lo più hanno abbandonato il traffico carovaniero per diventare guide turistiche, da quando i viaggiatori hanno scoperto il fascino del deserto. I dromedari sono stati in gran parte sostituiti dai camion, e i Tuareg si sono adattati a svolgere lavori manuali che in passato disdegnavano. Tuttavia in epoca odierna sono gli unici proprietari delle zone desertiche in cui vivono. Rispettano i loro animali, anche se talvolta li trattano in modo rude, sanno che nel deserto se muore l’animale, muore anche l’uomo. Questa loro saggezza è introvabile nelle città turistiche nel nord del Marocco per non parlare dell’Europa, dove i cavalli che trainano carrozze per trasportare turisti vengono spesso fatti vivere in condizioni pessime, malnutriti e sfruttati fino a stramazzare a terra.
Safaa era affascinata dalla saggezza di questo popolo, che trasudava da ogni piega della pelle ed espressione, da ogni modo di fare, da quei sorrisi appena accennati, quasi per non offendere, espressi per condividere naturalmente il più puro io; era un popolo che sapeva dare onore e valore alle cose semplici, anche le donne avevano un’alta dimensione e considerazione.
Pur avendo rifiutato di addentrarsi nel deserto con i dromedari, Safaa cedette all’invito del ragazzo blu e il giorno dopo si recò con lui e i suoi amici a sedersi all’ombra di una tenda Tuareg, per mezzo di un camioncino di fortuna, dato che lei aveva espresso il desiderio di non voler usare gli animali.
All’alba seguente fecero due ore di strada tra deserto roccioso e sabbioso, oasi improvvise e sempre più dune; Safaa perdeva i suoi occhi nell’oro rosa che fondeva cielo e sabbia, ormai le foreste di cedri dei giorni precedenti avevano da tempo lasciato il posto ad una vegetazione rada, dove il vento accarezzava i cespugli e annebbiava l’orizzonte di polvere, instancabile e sempre più ardente, che accendeva i ciuffi d’erba di riflessi paglierini.
Nel viaggio non incontrarono anima viva, stavano abbandonando gli ultimi palmeti da dattero con accanto antichi villaggi fortificati del colore della terra, immobili come camaleonti sonnecchianti. Il vento era l’unico soffio di vita ad abitare quel luogo; ecco le prime dune di sabbia all’orizzonte, che accendevano di rosala foschia diffusa, e il miraggio divenne realtà. Si ritrovarono immersi in un mare di onde dorate; viaggiarono tra dune e dune, alcune erano alte più di cento metri. Infine arrivarono in un minuscolo accampamento perso tra queste dune lisce e dalle linee incredibilmente tracciate come disegni perfetti; le tende erano fatte di teli e tappeti dal colore che si confondeva con la sabbia del deserto, dal giallo al rosso.
La tenda dove fecero ingresso, tipica Tuareg, tinta di ocra rossa, li ospitava con il suo caloroso misticismo e lì, seduti in cerchio su di un tappeto soffice, si dissetarono con quella che era ormai la loro bevanda preferita: il tè marocchino. Venne offerto loro con una cerimonia che divenne quasi infinita, molte erano le portate di tè versato in piccoli bicchieri di vetro. Il ragazzo blu versò a Safaa la prima portata e le disse che questa prima variante era molto forte così da dissetare, schiarire la mente e alleviare la fatica del viaggio. Mentre lo sorseggiavano il ragazzo blu e Safaa si guardarono negli occhi senza parlare, il calore del tè aveva addolcito gli occhi di entrambi e per un attimo si comunicarono amicizia e apprezzamento per l’altrui diversità, vi era una vibrazione che superava l’ipotetico interesse razionale, erano entrati in empatia. Il ragazzo blu che sapeva benissimo che i turisti erano affascinati dai suoi occhi, quel pomeriggio a sua volta era affascinato dagli occhi di Safaa, ne era rapito, anche se la sua cultura lo portava a non fissarla troppo, così che il suo sguardo era aperto solo sul deserto e sull’energia del luogo, sembrava proprio lo sguardo di un guerriero Tuareg che nulla guarda e tutto vede.
Continuarono a gustare quella bevanda magica godendosi il silenzio e l’aria secca desertica, in un rituale mistico che dava loro benessere e forse restituiva anche umanità; quell’umanità che da sempre era ricercata da Safaa nel suo vagare, convinta che il senso della vita non potesse prescindere da essa, dall’incontro, convinta che chi viaggia senza di esso, non viaggia, ma si sposta.
Ora Safaa sapeva che la sua rinuncia a persone che non le davano niente, la sua rinuncia agli impegni nella sua società, alle sue relazioni, non era stata una mossa azzardata ma la via della salvezza dall’infelicità.
E così quella sera un leggero sorriso spuntò sulle sue labbra colorate di marrone scuro, in quel luogo incantato ai confini della terra, della civiltà, fatto di sabbia e dune sinuose dai colori tenui e caldi; le tende con i tappeti marocchini avevano gli stessi colori del deserto e si confondevano tra le dune sotto un immenso cielo celeste, avvolte da un calore tremolante che restituiva dalla terra una avvolgente energia. In quell’ambiente entravano in gioco tutti i sensi e il senso della vista passava quasi in secondo piano perché era tutto un ascoltare: i dromedari lo avevano capito da tempo immemore, e Safaa come loro, adesso guardava le dune lontanissime sotto a quel celeste immenso; i suoi occhi verdi scuro, grandi e nascosti da palpebre basse di impenetrabilità brillavano e vi si perdevano, sembrava non guardassero più nulla, e con galanteria lasciavano spazio a tutti gli altri sensi, a tutto un altro sentire, l’anima sentiva, ma anche i pori della sua pelle sentivano il calore e l’energia; assaporando quel tè, dietro quella luce arancione, la sua pelle si ambrava e si nutriva. Per quel rito erano usciti fuori dalla tenda per stare di fronte allo spettacolo del tramonto che ora li stava avvolgendo in un velo di pacifica contemplazione che li metteva in condizione di assaporare il senso e il messaggio della vita. Ecco che una giovane ragazza Tuareg li risvegliò dolcemente con la seconda portata di tè, più dolce, per far toccare i lati positivi della vita poi fu la volta della terza variante, quella molto zuccherata, ingentilita da note fruttate, “il tè dell’amore”.
Lì fuori c’erano anche altre ragazze e ragazzi berberi seduti in cerchio con al centro un narghilè. I ragazzi erano concentrati in chiacchiere, i loro occhi erano neri e profondi, avevano turbanti in testa e lunghe vesti avorio, blu e rosse. Si unirono a loro e di fronte al sole che stava scomparendo sul deserto fumarono insieme. Le donne berbere sedute lì accanto avevano una loro evidente dignità, loro erano tenute in notevole considerazione in quel popolo, il loro volto era scoperto e luminoso, dalla carnagione bruno dorata, una bellezza valorizzata con fini gioielli d’argento. Il trucco sottolineava il taglio degli occhi con solfuro di antimonio e le guance erano ravvivate con il tefetest, l’ocra rossa. Alcune di loro suonavano il tindè un tamburo percosso con un bastoncino ricurvo o con le mani. Safaa ebbe la conferma che quelle donne rispettatissime dai ragazzi presenti erano le depositarie delle loro tradizioni e dei loro miti; era infatti grazie al loro temperamento e ai loro riti che si tramandavano antiche usanze destinate a perdersi nella notte dei tempi. Erano i loro canti e musiche che trasmettevano le leggende del popolo; spesso erano solo loro a conoscere il tifinagh, la scrittura Tuareg. Safaa si sentiva bene nello stare in mezzo a loro, ascoltando il suono dei loro tamburi che rompeva il silenzio del deserto, si alzò e iniziò a camminare su per un’alta duna, affondandovi soavemente fino quasi alle caviglie, tolse le scarpe per accarezzare la sabbia ancora calda a piedi nudi; le dava la sensazione di calore e di freschezza in un inconcepibile contemporaneo sentire: era soffice, fine come borotalco, ma incapace di stargli addosso, tanto era legata alla sua madre terra, la prendeva tra le mani e la lasciava scivolare via sulle ali del vento.
Il sole era in discesa libera e le loro ombre si allungavano, mosse da tiepide instancabili correnti. Le onde di sabbia danzavano sui fianchi delle dune mentre il cielo si tingeva di pesca rilasciando profumo di libertà e solitudine, ma non desolazione, bensì pace e Safaa si lasciò andare nell’oro rosa del deserto.
Le candele del campo si erano accese sui molti tappeti fuori dalle tende, e i canti attorno al fuoco scaldavano i presenti a suon di tamburi e qraqeb, le tipiche nacchere di metallo.
I ragazzi blu davanti al fuoco fumavano il narghilè ancora attenti a non osservare le ragazze, mentre queste pazientemente componevano i segni della loro scrittura sulla sabbia, raccontando così eventi anche lontani. Il suono dei tindè aumentava in modo compulsivo. La notte stava calando con un cielo stellato infinito, libero da ogni inquinamento luminoso, alcune ragazze iniziarono a cantare e altre a ballare; fu così che dopo molto tempo a Safaa entrò quella luce negli occhi che la portava a vivere ogni attimo con estrema gioia e creatività. Era infatti fortemente ispirata e dopo tanto che non suonava si unì a quel nuovo mondo col suo flauto, che magicamente tirò fuori dal suo prezioso zaino che portava sempre con sé. Quel flauto era parte di lei, sempre presente, era la sua certezza nella solitudine, ma anche la sua fonte di sostentamento e la sua arte. Iniziò a suonarlo in armonia con i canti e i suoni delle ragazze.
Accompagnando così quelle magiche cantilene ossessive, dimenticò sé stessa e suonò magistralmente componendo d’incanto melodie mai suonate prima.
Si alzò in piedi e ormai a notte inoltrata, suonò in mezzo alle ragazze che ballavano e cantavano davanti al magico falò le cui fiamme tremolanti rendevano il deserto all’orizzonte incredibilmente misterioso e affascinante. Mentre Safaa suonava le sue gambe si muovevano al ritmo della musica dirigendosi verso il falò con intorno i ragazzi blu; in mezzo a loro Nafis e Khalil si erano ben integrati, intenti a percepire tutta l’armonia, con il calore del fuoco a stemperare le dune ormai fredde e solitarie, cullati dalle musiche e dalla gioia di quelle magnifiche donne berbere, da non dover osservare troppo. I ragazzi blu si sentivano un po’ come i loro guardiani, ma senza alcuna autorizzazione, e ne erano fieri.
Safaa era inebriata da quell’esperienza che il suo occidente non avrebbe mai compreso, dedito ad appellare gli uomini di quel mondo come i persecutori e le donne come sottomesse. Safaa continuava a suonare in un crescendo fatto di note e giravolte intorno al falò, libera in quella inedita situazione, dove poteva esprimersi nel massimo della libertà che teneva dentro, senza doversi sentire osservata da occhi maschili addosso intenti a valutare; era libera nel volteggiare, con il corpo coperto da un velo blu che osava molto, che dava il senso di lei seguendola e ondulando tra le dune, tra i fumi e il fuoco, con le altre ragazze dagli occhi magici che cantavano, anch’esse padrone e ricche della loro libertà.
Le ore passavano e le ragazze vivevano quel momento come un rituale che ciclicamente ripetevano quando il momento si faceva propizio; e quella sera con la presenza di Safaa il momento era arrivato. Grazie al suono del suo flauto, grazie al suo modo di essere differentemente libera, con le gambe nude, sottili e scoperte, con quegli stivaloni da maschio, gli occhi verdi, profondi e con loro sorridenti, avevano trovato una donna che veniva da un’altra parte di mondo, libera come loro, forse più di loro, o diversamente, ma anche lei libera. Provavano stima e rispetto e li esprimevano con i loro sorrisi e i canti ritmici in un rituale con tamburi e nacchere suonati energicamente, volteggiando su loro stesse con sempre più trasporto, una sorta di sciamanesimo del deserto che infondeva forza ai presenti; erano loro le vere padrone di quel deserto e insostituibili guide per i loro uomini, gli uomini blu.
Safaa dal canto suo era stupita dal loro modo di esprimere la libertà, lei che in occidente pensava di essere libera, ma che sapeva di essere intrappolata in mille catene mentali, schiava dei pregiudizi, dei giudizi e delle imposizioni sociali. Safaa da tempo era diventata una ragazza libera, abbandonando chiunque fosse intrappolato in distorte regole sociali, e ora che aveva trovato quelle donne, col suo flauto continuava a creare note magistrali volteggiando su sé stessa, nel mezzo alle ragazze, intorno al fuoco e ai ragazzi blu, che imperturbabili si comportavano come se lei non ci fosse; loro che non avevano il concetto del guardare una donna in modo ossessivo alla ricerca delle forme, come degli oggetti da valutare. In quel mondo lontano i rapporti uomo-donna avevano altro tipo di essenza e di scambio, un’altra concezione, un’altra umanità e scambio, una naturale forma di rispetto e Safaa lo aveva capito in quel suo viaggio.
Ballarono tutte insieme sino a notte fonda; da ultimo fermarono le musiche e le danze, si misero in cerchio tenendosi per mano e chiusero gli occhi fino a quando esplosero nel tipico ululato Zagarit.
Safaa pensò che quelle ragazze berbere di montagna avessero una qualche discendenza dai lupi e che sapessero venerare la natura e la luna più di lei; quella natura fatta di nulla ma ricca di tutta l’energia del mondo.
Andarono a dormire insieme nella tenda delle donne, le berbere si strinsero un po’ di più per fare spazio a Safaa, e senza dire una parola si addormentarono una accanto all’altra come delle bambine, ricche di tutto il calore femminile che solo loro avevano, piene di tutta la forza che, la madre terra sulla quale giacevano, dava loro, erano libere da pensieri, da traumi, senza alcuna necessità di ricorrere a pratiche hippy o a terapie psicologiche. Certamente era possibile ottenere tutto in Occidente, grazie alle conoscenze e l’applicazione pratica quotidiana per poter sciogliere le infinite catene di quel mondo; ma perché crearne all’infinito?
Pensava Safaa: “in questo lembo di pianeta ai margini del mondo, abitato da questa strana popolazione, tutto era così naturale e libero, senza necessità di dover capire; questo lei aveva compreso alla fine di quel rito. Qua non c’era bisogno di ottenere tutti i saperi del mondo, un dollaro al chilo; qua gli uomini non erano come i nostri uomini-dèi andati sulla luna, che poi è tutto dire… uomini che avevano ottenuto tutto e poi erano finiti male in suicidi, alcool o droghe, fino a quando non avevano capito di essere insignificanti. In questo luogo i saperi continuavano ad essere tramandati dalle donne con i loro riti, incuranti di ogni altrui giudizio, sin dalla notte dei tempi; gli uomini sapevano che così doveva essere senza alcuna soluzione di continuità; le donne lo sapevano e ne custodivano il segreto, e chi si ribellava usando violenza su di esse veniva subito allontanato. Ora anche Safaa prima di socchiudere gli occhi, accanto al calore di quelle donne blu, aveva una maggiore conoscenza e consapevolezza di sé stessa e del suo valore.
Khalil e Nafis avevano già capito da tempo, prima di Safaa, che lei stessa avrebbe acquisito conoscenze alle quali loro non potevano accedere.
Tra loro, era lei e solo lei che riportava a casa i segreti e le conoscenze di quel mondo.
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La Ragazza che abbandonò il Destino
La Storia di una ragazza in fuga da un destino non suo
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23. Quercia
La Ragazza che abbandonò il Destino è un romanzo di formazione che mostra quanto la fuga sia necessaria al ricongiungimento con la propria vera identità: ovunque è casa solo se le radici dell’io sono ben salde.
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