Cap. 3 GLI ANGELI DI SANTA MARIA ANNUNZIATA Lunedì, passo per la prima volta un giorno in ospedale per un intervento chirurgico di asportazione di un carcinoma dall’orecchio destro, che si complica! Il day hospital, diviene inaspettatamente un weekend hospital. Tutto inizia con un uomo altissimo con una lunga coda di capelli, e un sorriso folgorante, occhi glaciali e battute mozzafiato, il quale inaspettatamente solleva il mio letto col telecomando sino ad un’altezza di circa un metro e 60 cm., dicendomi: “altrimenti mi viene la scoliosi a trasportarti”. Inizia a spingere la mia lettiga come fosse un pattino, col mio corpo steso e teso, a folle velocità lungo i corridoi dell’ospedale, curve in derapata, e pit-stop in ascensore. Il mio pensiero, dimentica l’operazione che sto per subire, ma vola nel circuito del Mugello; gli domando se li dentro è punita la guida in stato di ebbrezza, con infermieri e dottori a lato che manco ascoltano la mia battuta, considerando normale quel portamento. L’uomo alto, dal lungo codino che chiamerò ‘Dakota’ mi risponde: “faccio per surriscaldare un pò gli animi”, e aumenta la velocità. Allora mi reggo, rivedo il circuito del Mugello e gli dico: “in realtà sarebbe meglio raffreddarli gli animi”, mentre mi reggo e guardo a destra e a sinistra. Lui fa un sorriso smagliante, ma non mi guarda, spalanca gli occhi brillanti che guardano una meta visibile solo nella sua testa e aumenta la velocità. Mi reggo, guardo le luci scorrere sopra di me, non penso più a nulla, alla sala operatoria, ai ferri, e gli dico: “mi fai sentire il Crazy dei Pink Floyd, e tu sei il medico dei pazzi”, in un misto tra inaspettato smarrimento, euforia e terrore. Lui annuisce, sorride mostrando ancora i denti che sembra ‘The Mask’, e fa una derapata tra qualche altra infermiera e dottori che lo guardano di nuovo senza neanche vederlo, o facendogli un sorriso, come se fosse un uomo normale e da rispettare al massimo, non fosse altro per la sua altezza e magrezza estrema, il lungo codino, l’aspetto da grande saggio di una tribù Navajo, gli occhi di ghiaccio che guardano sempre lontano, chissà dove? Forse il traguardo in sala operatoria pronta all’opera, che poco prima aveva lanciato il via al trasporto urgente del malato ‘o del Gran premio’! I chirurghi erano pronti dal precedente intervento chirurgico, e non potevano attendermi molto... - mi avevano chiamato! Categorico e imperativo! Dovevo es- sere già lì!! Capisco la doppia funzione dell’uomo: la velocità, e la follia o gioia, non so, da dare al malato, ma il suo sorriso tirato e gli occhi che vedevano altri mondi all’orizzonte, facevano dimenticare ogni paura. D’improvviso mi trovo in ascensore, col cuore in gola ma entusiasta, con la mia mente altrove. Mi vedo ora in presala operatoria come se fosse un caso esserci, e un angelo mi accoglie in una stanza ovattata di plastica e ferri. Mi dico: “oddio sono qui!”. Il mio primo angelo: non ricordo le sue parole, era una giovane infermiera o dottoressa che si prendeva cura di me, mi impacchettava i piedi, e mi affiancava a un lettino stretto sul quale dovevo passare. Per convenzione mi diceva se volevo aiuto, la guardo e sorridendo sposto il mio corpo mezzo nudo sul gelido e duro lettino; mi dirà: “si scalda!” poi si scaldò davvero parecchio. Mi riempie con cura e velocità il petto di ventose e infine mi infila l’ago cannula, con perizia estrema, nella mano. Infatti, dato che non trovava la vena, e il primo tentativo falliva, mentre io non sapevo se piangere dall’impressione, dalla prospettiva di essere riempito di buchi, o ridere pensando sempre alla folle corsa in corsia, arrivava un altro angelo, il quale mi prende la mano con dolcezza e dice al primo: “senti la vena, non si vede, ma si sente”. Io penso: “Noo! La devi vedere, la devi far gonfiare, so che sei brava, fallo!”. Lei sembra sentire il mio pensiero, la sua concentrazione è ai massimi livelli umani, stringe l’elastico, mi fa aprire e chiudere la mano, mi batte sopra l’avambraccio, sulla vena, dei colpi con le dita, come fosse un massaggio shiatsu, i suoi occhi vedono le mie cellule, dentro ai pori, l’energia di queste è respirata, e ripete: “senti la vena sul polso, non si vede ma c’è, si sente”. Stringo gli occhi pensando che sono davvero pazzo, e dico: “vai, infila”. Ci riescono, parte d’improvviso un boccione di calmante e mi ritrovo in sala operatoria, il lettino stava surriscaldandosi per davvero, circondato da altri angeli, con musica rock alla radio. Il I chirurgo plastico mi parla della Rockoteca fiorentina di fine anni ‘80, gli chiedo se conosce Piero Pelù e i Diaframma. Certo, mi risponde: ‘Pelù era in classe mia, con i Diaframma, era tutto uno spettacolo’. A questo punto il mio intervento chirurgico diventa del tutto marginale: non so più dove sono, in che epoca sono! Mi domando il perché a fine anni ‘80 mi sono visto tutto l’under- ground rock fiorentino, fino a Les Négresses Vertes alla Flog, con Piero Pelù che mi offriva da bere la sua birra, mentre mi parlava di viaggi in Messico, che di seguito visiterò immancabilmente. Perché non sono rimasto buono in caserma alla sera? Perché? Perché la leva obbligatoria a non fare nulla? Penso sia perché abbiamo perso la guerra, perché siamo stati fascisti. Condannati a non essere nulla. E ancora, mi chiedo: ‘perché c’è stato il crollo del muro in quel fatidico 1989?’ Forse per vedere i Pink Floyd la sotto. The Wall. Per vedere il comunismo che svendeva i pezzetti di muro al capitalismo per pochi dollari, e rivedere oggi le manie folli di imperialismo. ‘Perché?’. Ti vedo allora il passato, ancora presente, la I repubblica sempre lì... a crollare miseramente e tristemente, e ancora oggi, ad ar- rovellarsi nell’eredità delle dittature imperialiste, nei ridicoli riscatti populisti. Allora basta ‘dicevo tra me e me, adesso penso solo alla mia vita! Perché tutto scorre, tutto ha una logica, ma nella vita, non ideologica. Azione, cammino, proposizione, concentrazione, coraggio, il futuro vivo che si crea dopo il buio’. Immerso in questi pensieri, l’intervento chirurgico parte d’improvviso con il II chirurgo di turno, mentre il primo si volatilizzava verso il suo misterioso riposo rigenerante fatto di scienza, di pensieri, di accudimento familiare, e di non so quali altri misteri della medicina, che non capisco come possano fornire tale calma all’adrenalina di quel lavoro, tale empatia con i malati. Pensavo: “è la passione per tale lavoro altruistico di cura, come niente altro possa esistere, è lo spirito del medico chirurgo, più forte di tutta l’adrenalina che già non abbia dentro”. Sparisce, ma non prima di avermi bucato l’orecchio 5 volte, e, contemporaneamente, fatto chiamare il II Chirurgo che non arrivava. Dice agli altri angeli che controllavano tutto: “mi aveva detto che arrivava, lo sapeva dell’intervento!” Lui era sicuro che il suo sostituto di turno arrivava, altrimenti non mi avrebbe bucato. Evidentemente la massima puntualità del pit stop di tali intrecci e comande da sala operatoria, era una certezza! Tutto programmato, meccanicamente, naturalmente. Il II chirurgo infatti arrivò e prese posizione al suo posto immediatamente dopo il V buco nell’orecchio. Una sostituzione impercettibile. ‘Incredibile’ dissi: ‘come si può’? Il primo si alzò e sparì. Il nuovo Chirurgo plastico, era molto calmo, molto calmo, lo sguardo magnetico ed entrante, il controllore di tutti i meccanismi e di tutte le pulsioni, sembrava in vacanza, ma deciso, sapeva tutto dell’intervento, e iniziò dicendo a una collaboratrice, con tono autorevole e parole vigorose di allertare tal laboratorio di stare pronto per procedere a tal biopsia con tal metodo scientifico. Ero circondato ora da 5-6 angeli, tra cui un tale seduto e teso che mi fissava (il più teso); proprio colui che mi aveva somministrato il calmante, guardando le gocce che scorrevano e i miei occhi persi tra le loro mani; mi osservava, per vedere la mia reazione, poco dopo accortosi che anche io lo fissavo, si alzava infastidito e ne andava; colui che doveva calmarmi artificialmente, era il più nervoso! Così partono a tagliare due lembi della parte interna del mio orecchio destro. E dopo 5 minuti di taglio, par- te la I biopsia sui margini dei lembi di orecchio estratti; passa mezz’ora dove tutti fanno qualcosa, e io dico: ‘mi lasciate solo?’. No, un angelo risponde sorridendo: “mai si lascia solo un paziente in sala operatoria sul lettino”, e dicendo queste parole, inizia improvvisamente a tagliarmi un pezzo di pelle dal braccio, con il garbo di lavorarla come fosse seta, e utilizzare al meglio ogni mia risorsa. Arrivano i risultati della prima biopsia, l’Equipe si ricompone, il silenzio lascia tutto lo spazio all’apprensione; risultato: “positivo!” Tutto il circuito operatorio si rimette in moto, di nuovo circondato, come al cambio gomme: ‘ferro, bisturi, garza’; reiniziano a tagliare; spediscono di corsa i due nuovi lembi al laboratorio. Tutto di nuovo si rallenta... e la pace delle persone operanti ritorna, taglia in due a fette la tensione, che sparisce, ritornano tutti a comportarsi come al banchino del campeggio: ‘tu che fai nella vita? ’ mi chiede il chirurgo. Che faccio? Si dialoga come se nulla fosse. Mezz’ora in quello stato è dura a passare, poi di nuovo tutti improvvisamente senza curarsi della fervida attesa, fanno cose; ma due angeli sono sempre vicino a me. Nella mia testa scorre di tutto, dal Mugello al Rock, fino ai numeri del livello del dolore che avevo memorizzato da uno a 5, che la sera prima avevo letto sul modulo operatorio come le istruzioni per il mio comportamento: ‘avrei dovuto comunicare il livello del dolore dicendo un numero da 1 a 5’. Il mio sangue, lo sento scorrere come fiumi in piena, il mio corpo semi-anestetizzato, lo sento più vivo che mai, il tempo non ha più significato, in quella corsa sento di poter morire, ma voglio correre. la mia pelle sente la pace dell’Equipe, per non tirarsi e strapparsi sopra le fasce muscolari, in quel frangente tiratissime. Arriva il risultato: lembo n. 1 positivo ore 12, lembo n. 2 negativo ore 15. Ripartono a bomba a tagliare: ‘ferri, bisturi, garza’: ma scattano le due ore, l’effetto dell’anestesia cala, mi irrigidisco tutto, ho gli occhi sempre aperti, sbarrati, mi dicono di nuovo: ‘chiudi gli occhi ‘. Non ci riesco. Un angelo dice con forte vigore: “sente male, soffre, si è irrigidito”. Io, sapendo che occorre comunicare il dolore “da lieve a orrendo” con una scala da 1 a 5, urlo: “... uno ...due... uno!” ‘non volevo di nuovo l’ago nella testa’. Il chirurgo, sorpreso, esclama: ‘cosa sta dicendo? ’ E io: ‘ma come? Le istruzioni ... ca...volo!!’ Ma sono troppo contratto, mi sentono, non ci credono, mi fanno un’altra puntura profonda nel mezzo dell’orecchio; sento l’ago improvvisamente arrivare non so dove, forse vicino al cranio, lo sento toccare, una parte oscura di me, dove regnano solo pensieri e sensazioni, forse l’inconscio, che doveva essere protetta, violata incredibilmente da un ago, neanche da uno psicologo! Da un ago!! I pensieri si rompono, ma ho la conferma che siamo fatti di energia, che tutto scorre, che nulla si rompe. Continuano a tagliare cartilagine, con cellule malate. Non mi scompongo, ma i miei occhi sono sempre più sbarrati. Mi dicono di nuovo: “chiudi gli occhi”. Rispondo che non posso. E non so più cosa sia il tempo, con quell’esperienza. Parte la III biopsia. Sono tranquillo, so che spazio per tagliare ancora ce ne è molto prima di perdere l’intero orecchio, e prima di morire, non mi interessa nulla del mio orecchio ‘e il prossimo risultato di laboratorio sarà finalmente negativo’... lo sentivo! Dopo altra interminabile mezz’ora dove si parlava di tutto, ma non ricordo nulla, dove le sensazioni si scambiavano tra noi, l’uno con l’altro, gli sguardi suadenti e umani si incontravano tra loro, nella comprensione delle sensazioni, del dolore, nell’aiuto, in un tempo dove ti senti su un motoscafo che corre al massimo, e tutti insieme guardiamo l’orizzonte, goden- dosi il vento, certi di arrivare... . E così arriva il terzo risultato di laboratorio. Silenzio tombale che sanciva apprensione vera! Appare come un miraggio, un attimo di paura, ma è davvero la terra! Arriva il risultato: “Negativo!” È finita! Tutti ci distendiamo. Un chirurgo angelo donna, inizia a cucirmi la pelle, precedentemente presa dal braccio, sull’orecchio. Lunghe, accurate cuciture, che sembrava mia nonna, che mi cuciva i pantaloni mentre li avevo indosso. Con grazia tutti respirano come se non avessero lottato contro il destino, contro l’errore, contro la fatalità, contro l’imprevisto. Il tempo prosegue, così, normalmente, come se davvero fossimo stati in un campeggio a guardare un Gran Premio reggendosi alla sedia, ma il gran premio era vero, o in motoscafo a correre al massimo, per poi uscire in ciabatte in pineta, smaltita l’adrenalina, e dirsi, andando via, con parole vigorose piene di gioia: “ce l’abbiamo fatta, abbiamo vinto”. Mi salutano con dolcezza e sguardo malinconico, ma felice di un saluto che è un ciao, noi ci siamo sempre; non è un addio, loro sono i guaritori del villaggio. So che ci sono sempre a combattere per chiunque, e questo mi rallegra; un saluto che non dimenticherò! Un saluto, vedendoli passare infaticabili al prossimo immediato intervento, di nuovo trasportati dal loro vento. Non ricordo chi mi trasporta nella mia stanza, non poteva essere Dakota, che era impegnato solo nei suoi folli viaggi di andata. infatti lo incrocio all’improvviso con il suo sguardo euforico, da pilota, e il sorriso tiratissimo a 46 denti, che corre trasportando altro paziente su altra lettiga. Arrivo in camerata (sembrava quella della caserma di 20 anni prima), ci sono i tre signori anziani del mattino, doloranti con vari problemi, sacche di liquidi e cateteri; mi attendevano, mi dicono: “hai visto, che è stato veloce, che un si sente nulla”? Pensando al loro dolore, rispondo: “si, è vero”. Arrivano delle infermiere, le quali con dolcezza, il sorriso sempre sulla bocca, con massima competenza e apprensione si prendono cura di tutti, fanno finta di niente di fronte al dolore, ma lo sentono sulla pelle, sorvolano su talune battute cameratesche; ci sorridono sopra evitando commenti, come a dire: “si è vero, simpatica idea”, come se fossimo bambini da accudire per prepararci alla vita la fuori; per ore e ore, con i secondi che valgono minuti, sono attente a tutte le esigenze delle persone in stanza, sempre col sorriso negli occhi, l’atteggiamento materno e attento, all’erta su ogni tubicino, su ogni pulsante, su ogni terapia da somministrare, velocissime, ma calme, in sincronicità tra di loro. Un occhio sui tabulati, uno sui tubi, un orecchio su un lamento di un anziano, un orecchio su una sua richiesta, su un bisogno, su un lamento, e la risposta sempre presente: “ci sono, sono qua, come stai?”. Alla sera, ai tre signori anziani, dico: “ragazzi, ma siamo in ospedale o in camerata sotto militare, con la differenza, che qui abbiamo dei materassi incredibilmente comodi, e siamo da angeli coccolati, invece che con i peli del culo bruciati”? Loro sorridono e ci mettiamo a parlare dei nostri servizi militare e avventure di 20-30-50 anni prima. Si dimenticano dei dolori, e sopraggiunge lo spirito di camerata, due battute sui ricordi di questa o quella situazione grottesca, umana, memorabile, sulle soluzioni di vita inaspettate, poi silenzio, poi una riflessione di colui che sospirando dice: “sono rimasto solo lei ormai se ne è andata da 7 anni”, al quale non sappiamo cosa rispondere, poi uno rompe il ghiaccio dicendogli che per lui ci sarà sempre qualcuno, e dimentica quel pensiero, cambia espressione e visione. Alle 22 è la buonanotte, l’infermiera dopo aver controllato tutto, spenge la luce e ci dice, tanto ripasso preso. Durante la notte la vedo, è morettina e giovane, mi domando ‘ma come fa? È una bambina’. No, è preparatissima e attenta, è una giovane donna dedita con devozione e alta professionalità al suo lavoro, con solerzia e passo felpato, nella notte, ripetutamente controlla i dolori dei malati, controlla le sacche, controlla le flebo, si china, controlla maniacalmente le gocce che scorrono di qua e di là, guarda sotto ai letti. Mi chiedo: ‘ma che cerca? ‘. Controllava tutto maniacalmente! Anche le prese della corrente! Poi, con passo sempre leggero l’angelo custode sparisce, e tutti dormono come bambini, sicuri come dell’aver una mamma accanto. Mi riappisolo anch’io in quel silenzio di cagnolini beati, ronfanti e coccolati, meglio che a casa. Crollo dopo una giornata incredibile, la mia I volta in ospedale, ma per ultimo tra i presenti, non prima di aver voluto sentire i movimenti e l’energia di tutte quelle persone sofferenti e con la vita in pugno, con la grande voglia di comunicare la propria vita, la propria umanità, dove l’empatia ha un valore immenso, in quel mondo magico di angeli. Al mattino, altra infermiera luminosa e sorridente accudisce i bambini con il giro delle medicine, ascolta le esigenze varie, ci dà il buongiorno, col ‘come và stamani?‘, dava la vera impressione di essere felice di trovarci, era di corsa, energica, ma disponibile a fermarsi con apparente calma ad ogni bisogno, ad ogni richiesta, pronta a tirare subito il freno al suo giro di ispezione, e offrire a tutti calma e ascolto totale, prima di ripartire in quarta verso altri malati. Tutte le esigenze sono accolte. Io dopo un’oretta dico ai miei compagni, ormai, di camerata: “ragazzi, vado giù al bar a fare colazione, chi viene con me?”. Loro mi rispondono: “aspetta ce la portano qui: c’è tutto, fette biscottate, caffè, tè, anche marmellata, ce la portano gli angeli”. Allora, quale ghiotta occasione, per ricordare le colazioni fatte sotto militare nel 1989 alla Scuola di Guerra Aerea di Firenze, con compagni dalle mille problematiche e dai mille incredibili progetti per un futuro migliore? Rimango a fare quest’ultima colazione cameratesca. Arriva, il chirurgo che mi spiega cosa è successo; io gli dico: “lo so cosa è successo!” Lui invece mi spiega come mai non riuscivo a chiudere gli occhi. Era stato quell’ago, quella ennesima anestesia: “hai avuto una paresi facciale!” Mi stringe la mano, sorride e se ne va. La nuova infermiera del mattino si cura di farmi altra boccia di antibiotico, mi toglie la benedetta ago-cannula dalla mano, e poi col sorriso sulla bocca mi chiede: “rimani fino a pranzo?” Sorrido, e penso: “rimarrei ma il semolino di ieri sera era un pò sciocco, e sto morendo di fame”; sto per dirglielo, mi trattengo, la guardo e le rispondo con una bugia, che la vita mi ha insegnato a dire con naturalezza... per gentilezza; ma capisco che il mio pensiero era impulsivo e sbagliato, no, in realtà non avrei detto una bugia. Mi accorgo che sto per dire davvero la verità, in quell’ambiente di scambio conti- nuo di aiuto ed emozioni; in fondo sarei anche rimasto davvero volentieri con loro ancora un pò, ma dico la vera verità: “grazie, faccio con calma, grazie, ma lascio il mio posto a qualcun altro che attende, che sta per arrivare, e il letto va preparato”; l’altra ragazza che rifà i letti sorride, e prende le lenzuola pulite. Il saluto è un qualcosa che è un “ciao, ci rivedremo, tanti cari auguri per il futuro”... nella naturalezza di un ambiente magico, che sembra un paese antico, un paese dove tutto fila liscio in tutte le sue regole, con tutti i suoi personaggi fondamentali, incluso il grullo di paese, da tutti curato e amano; ove a tutti viene data la ragione, anche a chi fa una battutaccia, con un lieve sorriso benevolo, come per dire che ‘forse è lui il più fortunato di tutti noi, perché soffre ma non sa di soffrire, gli basta il calore umano e qualche sorriso per compensare la sofferenza; sa recepire, ha bisogno della ricchezza dell’empatia’; è forse il più umano di tutti noi, colui che ci da la forza di andare avanti, colui che ha bisogno di solo un pò di attenzione. Quell’ospedale è un paese magico dove ci vediamo con gioia, sappiamo che lo è perché li regna la gentilezza, la dedizione e collaborazione l’uno con l’altro, lavoro, aiuto e le battute benevole sempre a portata di mano; il sorriso mai è assente, a scacciare i dolori più ribelli, che non possono far altro che inchinarsi di fronte a gesti mai visti, mai così belli. Ciao è l’ultimo saluto che a volte racchiude tutto: in quell’occasione, racchiudeva le parole: “stai sempre bene, così come sei stato in questo posto incredibile”. È ora finito il mio weekend inaspettato di vacanza dall’altra parte della città, torno a casa completamente ricaricato. Esco col capo bendato da un grande viaggio inaspettato, in un villaggio sconosciuto, misterioso, pieno di energia, amore e conoscenze. Esco da quel posto custodito da angeli col ricordo riacceso di quando ero più giovane, il ricordo delle cose che contano, gli scambi di umanità vissuti nel tempo, il mio cammino che si era un pò perso o dimenticato, ora rinato.
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