Disegno dell'illustratrice Sara Panicci
15 SOGNANDO L’ESSERE ANIMALE
Nafis si trovava a passare molte giornate in cui non aveva obblighi di studio o particolari impegni con i suoi amici, e improvvisamente, durante il suo lungo cammino di ricerca di certezze, di strumenti per fortificarsi potendo così affrontare avversità e gli umani poco umani, alla ricerca di sempre maggiori contatti con i boschi e i suoi animali, iniziò a pensare a come poter riempire il proprio tempo per non cadere nella brutta sensazione di buttarlo via. Infatti, dopo tanti pomeriggi passati a pensare alle cose da fare e a realizzarle per sentirsi in pace con sestesso, si sentiva a volte drammaticamente vuoto. Allora ad un certo punto smise di raccapricciarsi, e abbracciando il suo amico Silenzio, lasciando fluire fuori di sé tutti questi pensieri che gli occupavano la mente, si mise ancor di più ad osservare il comportamento degli animali, una sorta di contemplazione ipnotica, e piano piano con la mente sempre più libera arrivò a comprendere una grande verità.
Nei giorni a seguire, dopo le sue solite molte attività, una sera con l’arrivo della notte, in compagnia del Silenzio, a sua mente cominciò a divenire stanca, troppo stanca, pesante...ma ancora sveglia, purtroppo troppo sveglia e di dormire non c’era verso. I suoi occhi erano socchiusi, ma mentalmente si fissarono sul cielo stellato e sull’orizzonte, per un tempo indefinito. Ora non pensava più a nulla. Sentiva il fluire del tempo, sentiva l’universo che si muoveva piano, che lavorava incessantemente anche per lui, sentiva la sua energia, e per stare bene non doveva fare altro che stare fermo unito ad essa e allanatura che lo circondava. Il giorno successivo i suoi occhi osservavano il tutto e la sua bellezza da soli, senza un comando, osservavano e davano messaggi ad una mente libera. Nafis si era fermato per molto tempo con gli occhi che sembravano diventati di ghiaccio sul cielo celeste e si confondevano con esso, quando poi si spostarono da soli e d’improvviso sul volo di alcuni uccelli, distogliendo la mente da quel particolare stato di estasi, e nello stesso istante percepì un movimento. Era uncapriolo che correva e che di colpo si fermò, immobile, con lo sguardo fisso verso una montagna, sembrava che sentisse qualcosa.
“Forse si sta solo rilassando”, pensò Nafis, “perché ha corso ed è stanco anche lui. Ma perché fermarsi di colpo e vicino a me, poi? Magari in quel punto percepisce una certa aria buona, un certo silenzio colorato da intermezzi di lievi suoni dagli alberi, lì in quel particolare punto avrà sentito qualcosa, penso che proprio in quel punto abbia deciso di sentire meglio la sinfonia della natura! Ma accanto a me?” Nafis si ripeté. Poi il capriolo si girò e lo osservò a lungo. Sembrava che dai suoi occhi immensi e pieni di natura passasse una condivisione di qualcosa di unico, che l’animale dovesse condividere con qualcuno. “Ma si!”, si disse Nafis, “è quello il punto chiave: la condivisione! La bellezza va vissuta in due, va condivisa per acquistare la dignità di essere tale”. E i suoi gatti dalle mille personalità? Quando Nafis stava fermo a pensare con la mente esausta, talvolta si metteva ad osservare il comportamento dei suoi amici gatti: Casper, Sissy, Topolina e Panic. Si rendevaconto che in realtà erano loro che osservavano lui, e mutavano il loro comportamento di natura diffidente solo col passare del tempo, conoscendolo meglio. Non erano tutti uguali, ognuno aveva il suo carattere, forse ancestrale, mille anime d’animale.
Chi si stupiva sempre delle cose apparentemente insignificanti con un “prrr”, o forse era solo un segnale per attirare l’attenzione sulla sua felpata e dimenticata presenza, chi non si arrabbiava mai, era imperturbabile e anche imperscrutabile. Chi andava lasciato stare perché a lui non piaceva essere disturbato, ma poi te lo ritrovavi d’improvviso appollaiato a tre metri di distanza da te, in qualsiasi punto della casa tu ti trovassi. Chi con lo sguardo ti diceva “sono qua”, e poi prezioso appena pronunciavi il suo nome, scappava. Ma tutti erano incredibilmente seri nel vivere la loro vita, o attenti, orgogliosi della loro casa e della lorofamiglia, gelosi degli affetti. Se li accarezzavi rispondevano con un cenno, uno stiramento, uno spalancare gli occhi verso di te, uno sbadiglio, un miao di saluto, un prrr di stupore, ma difficilmente tolleravano un’azione non seria, uno scherzo, sembrava che con lo sguardo o con il loro comportamento ti ammonissero subito: “ma che fai, sei matto...io sono un serio gatto!”. Così facevan tutti, erano guerrieri pacifisti! Loro passavano il tempo a vagare con passo silenzioso, si soffermavano ogni tanto ad osservare curiosil’ambiente, sembrava vedessero delle energie invisibili. Poi ripartivano. Era una ricerca, ogni cosa li stupiva, fino a trovare un punto particolare dove stare e sosta- re, anche il più insolito possibile, magari in cima ad un albero, o sopra una cassetta delle poste. Cercavano e trovavano il loro centro perfetto di pace. Così si mettevano in posizione di riposo, con le zampe incrociate e scomparse nella loro nuvola pelosa, la calma era ora massima, gli occhi socchiusi, i baffi rivolti verso l’ambiente circostante come radar difensivi, le orecchie ritte. Gradivano molto tutto ciò, dall’inizio della ricerca fino alla meta, finché non erano attratti da qualcosache ne valeva la pena, un luogo perfetto dove stare in pace, e lì rimanevano col tempo che pareva fermarsi, non si muovevano più per ore e ore, non si ponevano più nessun problema, se dormivano o erano svegli, se pensavano o sentivano qualche cosa. Se passava qualcosa o qualcuno davanti a loro, non facevano una grinza fin quando la distanza di sicurezza non era violata, e in tal caso entravano in allarme pronti a scattare. Semplicemente contemplavano il fluire dell’aria buona, forse i suoni degli uccelli, la pace che la natura offriva loro, il rumoroso silenzio, le invisibili energie, forse presenti, che a volte sembrava osservassero at- tenti, attratti...così son fatti i gatti.
Non conoscevano agitazione. Erano parte integrante dell’ambiente, lo vivevano in tutta la sua armonia. Poi arrivavi tu in casa dopo una giornata fuori e loro ricominciavano a vagare e a fermarsi intorno a te, a sbadigliare e a stirarsi, ad osservare il tutto, i tuoi movimenti, disposti a farsi avvicinare. Era la richiesta di un contatto, una condivisione di amicizia con un essere umano a coronamento della loro giornata. Ma forse era di più, dimostravano un sentimento, e lo facevano con volontà, non per bisogno, né per istinto. Nafis disse infine: “Per me i gatti sono tra i primi esseri a discendere direttamente dalle stelle e amano con volontà, forse per tornaconto di gatto, ma molto dignitoso: amano per essere liberi. E non era per il cibo, che infatti era ancora presente nelle loro ciotole.” “Come mai”, si domandava Nafis, “noi animali umani abbiamo sempre bisogno di fare qualcosa e siamo sem- pre nervosi, ansiosi, in una situazione mentale spesso stressata e infelice, alla continua ricerca di un risultato, di un’affermazione che possa essere oggettivata, tangibile e riconoscibile anche agli altri? Solo questo vogliamo sempre condividere, il nostro successo, i nostri risultati. Un risultato raggiunto, spesso e volentieri non ci appaga in modo tale da darci quiete; dobbiamo subito dopo cercarne un altro, ma per cosa, solo per porci immediatamente in una situazione di ansia da risultato, dipensiero attivo e di stress? Ciò con l’illusione di raggiungere un giorno o l’altro la felicità, con l’effetto di rimandarla e non viverla, di trovarsi sempre stanchi, senza tempo, in ansia e spesso con un’esistenza privata di essenza, fino a consumare l’intera vita senza aver vissuto, senza aver semplicemente assaporato ogni momento, ogni giorno le bellezze del mondo, dell’amicizia, dei sentimenti, per poi arrivare così facendo d’un tratto alla fine vita senza averla vissuta”. Allora Nafis dopo lunga osservazione negli anni degli animali, pensando al loro comportamento, parlò con i suoi amici del loro agire: “Loro godono dell’ambiente in cui vivono, lo percepiscono in tutta la sua musica, ne rimangono appagati; e non hanno neanche la ragione, così pensiamo noi di loro. Noi invece viviamo perennemente di corsa, imprigionati da innumerevoli obblighi e quasi sempre relegatiin ambienti chiusi. A differenza dell’uomo che vive in perenne stato di apprensione e poi incurabile prostrazione, stress e allarme, gli animali vivono assaporando la pace e la bellezza dell’ambiente ed entrano in allarme solo di rado, cioè quando c’è un pericolo reale e devono immediatamente fuggire, oppure se hanno fame. Risolto il problema tornano a contemplare il cielo e il loro battito cardiaco è tranquillo. Ascoltano la natura, la osservano guardando un fiore o un loro simile che corre, poi si girano e, come se la natura fosse un infinito appassionante film, cambiano canale osservando ad esempio un’ape che lavora, e forse si domandano cosa stia facendo con tanto impegno. Sembrano sapere, nel loro DNA è scritto tutto, ogni memoria, sanno che le api sono importantissime per il mantenimento della biodiversità e della conservazione della natura. Sono impollinatori, le osservano ammirati nel loro agire, sostare in aria, appoggiarsi su un fiore, e le apprezzano. Noi lo sappiamo scientificamente, ma non coscientemente, non diamo loro valore, non le contempliamo ese possiamo le sterminiamo. Di fatto senza le api la natura sarebbe povera, verrebbero a mancare i frutti, fonte di sostentamento peranimali e uomini. Finirebbe la vita sul pianeta qualora scomparissero le api! Erbe ed essenze arboree per riprodursi hanno bisogno di ricevere il polline dalle piante consimili, funzione che viene svolta soprattutto dalle api. Il silenzioso rapporto delle api con le piante è antico quanto la loro esistenza. Se siamo tranquilli le api ci girano intorno, si soffermano in aria per dei secondi davanti a noi, ci os-servano e forse ci comunicano qualcosa di ancestrale. Attendono un po’ ma poi non traendo da noi alcunché di interessante se ne vanno tranquille a riposare, dopo tanto essersi date da fare. Pur sapendo della loro importanza, l’uomo non vuole proteggere questi piccoli e meravigliosi insetti, chemuoiono a causa dell’uso in agricoltura dei pesticidi, nocivi tra l’altro anche per noi umani a causa della loro tossicità che invade gli alimenti e che alle api fanno perdere l’orientamento, le capacità motorie e nervose, fino ad ucciderle. L’indole umana di uccidere e distruggere il pianeta la ritroviamo quando, vedendo un alveare vicino casa, corriamo subito a prendere benzina, un giornale e poi diamo fuoco per sterminare, come al solito, animali innocui, o comunque non pericolosi al punto di meritare la morte, esseri della natura, bruciati e avvelenati. La pacifica e utile convivenza in un sacro principio di reciprocità naturale non riusciamo proprio a concepirla. L’uomo ha perso l’amore per tutto ciò che secondo lui non è alla sua altezza, e infine per la Terra stessa.
Occorre amare questi insetti, non averne paura, non usare gli spray assassini; non sono pericolose le loropunture, a meno che una persona non sia allergica. Producono il miele per sostentare la colonia nei mesi invernali, la pappa reale per l’ape regina, la propoli per tenere lontani funghi, batteri e virus dall’alveare, la cera per costruire e modellare le loro cellette. Noi umani cosa produciamo di utile? Rubiamo solo, rubiamo tutto alla natura, a partire dal miele delle api. Produciamo denaro, e con la sua produzione, produciamo anche il veleno che ha intossicato il mondo intero! Questo è il nostro modo deleterio di passare il tempo, per ritrovarsi infine con quella sensazione di vuoto e inutilità che non sappiamo cosa sia, che reprimiamo con alcool o pasticche e se va bene con sedute psicoanalitiche. Ma ormai è chiaro cosa sia, è chiaro il perché. Se non produciamo beni ci sentiamo inutili, se produciamo beni siamo distruttivi; come possiamo con queste logiche essere sereni e in pace? La soluzione sarebbe semplice, basterebbe fermarsi un po’ a contemplare la natura, rispettarla, come fan-no loro, gli animali. Le stagioni che scorrono lente in ogni giorno sempre diverso dagli altri, diverso e unico, il cielo che cambia colore e immagine ora dopo ora, offrendo scene continuamente nuove e uniche. Ma il problema è molto complesso e riguarda il nostro smisurato egocentrismo provocato dalla societàmoderna. L’attenzione è tutta nel nostro ego proiettato sull’esterno, sul possesso di cose e persone, sogni effimeri, quando guardando dentro di noi, col favore del silenzio e della natura, ci potremmo svegliare. Oggi ci sentiamo ansiosi e prendiamo pasticche, domani stanchi e prendiamo fiumi di caffè, il giorno dopo euforici e consumiamo alcool, nel frattempo ci sentiamo inadeguati e accumuliamo beni a discapito della natura, per credere di essere felici. Poi glieli restituiamo sotto forma di rifiuti e di veleno. Gli animali si curano da sempre attraverso le medi- cine naturali. I lupi se hanno mal di pancia mangiano erbe curative, come i cani e i cavalli. Il sapere della natura, compreso dagli animali e ripreso da antiche civiltà, consiste nell’accompagnare il problema e la malattia, nell’accompagnare per mano il “nemico”; viene accompagnato per utilizzare la sua stessa forza e rendere possibile la cura. Le antiche arti marziali e l’omeopatia lo hanno capito, non utilizzano l’opposizione, lo scontro, la violenza delle forzature, ma si allineano alla paura, al problema, alla nostra ombra, al nostro mostro interiore, lo prendono per mano accompagnandolo con noi, conoscendolo bene e facendoselo amico, dopodiché, attraverso un’armoniosa lunga danza con lui, pazienza e amore, raggiungono l’obiettivo della guarigione”. Nafis disse agli amici per fare un esempio: “Durante il lockdown, a causa della pandemia le persone chehanno saputo vivere bene il confinamento lo hanno superato, e sono anche cresciute interiormente. Occorre fare pace e amicizia con le nostre paure, realizzarle in noi, prima che si realizzino da sole con un danno. L’omeopatia ci instilla ogni giorno delle dosi minusco le di ciò che ci fa male. Questo lo dobbiamo imparare a livello emotivo ed energetico dagli animali, dalla loro osservazione, e si apriranno nuovi mondi, non più un’u- nica realtà ma mille soluzioni, intuizioni, possibilità e avventure. È una medicina che non viene dalle università ma dal nostro Maestro interiore, che ci insegna come abbattere i nostri limiti, in un cammino consapevole che ci porterà alla vera conoscenza. Un qualsiasi animale, dal gatto, allo scoiattolo, al cane, al daino, all’uccello, passa del tempo a osservare ciò che ha intorno: una valle, un fiore, una farfalla, una rondine, i suoi volteggi; rimane rapito dal loro mistero, dalle loro acrobazie e virate, bellezza e geometria. Poi la rondine si unisce ad altre e in picchiata cantano e stridono, volteggiano d’improvviso e spariscono per tornare solo a farsi gratificare. E se invece l’animale lo avesse capito in pieno quel mistero della natura? L’animale si sa fermare per contemplare tutte quelle dinamiche particolari, assapora il lento passare del tempo senza noia, ove ogni istante ha una sua funzione, ne assimila la musica e la pienezza, si rinfranca da essa. L’uomo invece che fa? Ha disimparato a farlo, ha dimenticato di amare la bellezza, l’ha distrutta e avvelenata, incluso se stesso, e poi vorrebbe ricrearla, con opere tossiche come avveniristici grattaceli, ponti, megalopoli e fabbriche. Se non fosse per gli artisti che la ricreano col cuore e la passione, di noi non rimarrebbe nulla di buono”. Nafis, preso da mille pensieri e interrogativi sulle dinamiche naturali, raccontava tutto questo ai suoi amici che lo osservavano come fosse anche lui un’ape al lavoro per la conservazione del mondo; e disse infine: “Tutti noi insieme dobbiamo cambiare il nostro comportamento nei confronti del pianeta e degli animali,
semplicemente tornando per incanto ad essere ciò che siamo...animali. L’inganno è iniziato con la foga dell’Umanesimo, dove l’uomo veniva rappresentato al centro di una spirale ed erano ammirati i valori di forza, dominanza e superiorità. L’esempio principe di questa euforia lo troviamo nel capolavoro di Leonardo da Vinci, l’Uomo vitruviano, creato nella ricerca delle proporzioni umane perfette, simbolo della perfezione umana paragonata a quella divina”. “Mah”, sbuffava perplesso Nafis, rivolgendo completamente lo sguardo verso se stesso, e diceva: “La cosa mette confusione, considerando che per i grandi filosofi greci la natura era qualcosa di superiore a noi. Aristotele diceva che la natura è ciò che ha in sé il principio del movimento: le cose inanimate, le piante, gli animali; tutti esseri che mutano, si muovono e si riproducono senza l’intervento dell’uomo. Rimarranno delusi gli antropocentrici, ma la verità è che siamo animali, ingranaggi pensati e voluti dallanatura, la quale stabilisce quando dobbiamo nascere e ineluttabilmente quando dobbiamo morire. Siamo animali, anello fondamentale della catena naturale, anello oggi rotto, con la brama dell’avere, da doversi recuperare per ritornare ad essere.
L’intelligenza antica dell’animale che ha conservato il suo istinto, pura saggezza, è ancora lì intatta. L’uomo l’ha smarrita, puntando tutto sulla sua ragione, e adesso noi dobbiamo recuperarla con tutti gli sforzi possibili, ma anche con semplici esercizi di buon vivere in mezzo ad essa: contemplare e amare gli esseri di questo pianeta, i suoi alberi, la sua acqua e la sua terra viva, la Madre Terra che dobbiamo ringraziare, il nostro amico Silenzio, che ormai abbiamo imparato ad apprezzare e che talvolta ci parla e ci sostiene. Unirsi alla natura e in ogni occasione aiutarla, liberare una farfalla o un ragno o un pipistrello intrappolato nella nostra soffitta, dissetare gli uccelli d’estate, o sfamarli d’inverno. Possiamo iniziare ad esempio creando delle aree salva-api, dove le api e gli altri insetti impollinatoripossono trovare rifugio e nutrimento, seminando fiori nell’orto, sul balcone, in un parco o nel giardino. Le nostre piccole azioni porteranno grande e ritrovata ricchezza al mondo, ma anche ricchezza d’animo, e ci da- ranno nuova energia e voglia di viverlo, il mondo, tutti i giorni, dando un piccolo aiuto ad animali importantissimi che vivono intorno a noi e lavorano anche per noi. Il nostro umore salirà col nostro respiro più forte e più ricco di energia, senza bisogno di oggetti e medicine.
Assaporeremo la gioia di vivere in simbiosi con loro nella natura, l’essenza della bellezza del mondo ciprenderà e potremo vivere più liberi, grazie alla com- prensione del fatto che non siamo soli, che l’uno vive in funzione dell’altro e del pianeta. L’ape stessa, le civette guardiane della notte insieme ai lupi detentori della libertà, i delfini principi dei mari, le rondini che verranno tutte le sere a volteggiarci intorno, perché noi le ammireremo e loro lo capiranno. Avremo la nostra naturale funzione, troveremo il nostro spazio, la nostra giusta collocazione oggi smarrita, solo perché crediamo, con la nostra ragione, di essere superiori. Ma chi si sente superiore alla fine si perderà nel nulla del suo ego. Dobbiamo preservare il mondo, abbandonando la nostra bramosia di potere e di possesso compulsivo svendendo il nostro tempo per sfruttare e distruggere, diventando sempre più irrealizzati e depressi. Paradossalmente non capiamo neanche il perché della nostra tristezza e mal di vivere, unita a grande stupidità; non ci sogneremo mai di essere liberi come i grandi uccelli che ci sorvolano lenti, osservandoci piccoli e stupidi, nei nostri traffici. Rapaci...per antichi popoli le grandi sacre aquile, i grandi spiriti.
Anche l’importanza del vuoto, che non è una malattia del silenzio interiore, che non è solitudine, va imparata dagli animali; sono loro che possono salvarci e inse- gnarci a salvarci, a salvare il pianeta. Nella nostra società fermarsi a planare, o semplice- mente a contemplare, equivale ad arrendersi e ciò haun’accezione negativa, perché le persone forti lottano, non si fermano mai pensando che così è maggiore la probabilità di raggiungere una qualche felicità. E se invece fosse opportuno fermarsi? Smettere di pensare, di fare, di produrre, per lasciare che le cosevadano come devono andare? Contemplare, vivere! Non è forse questa la vita?”. Così rifletteva Nafis con i suoi amici, mentre una lepre accanto a loro sembrava partecipare alla riflessione, come se approvasse i loro dialoghi e il loro meditare. “Gli animali stando quieti nella natura, contemplan- dola hanno già raggiunto i loro obiettivi. Imparando da loro, passando del tempo ad ammirarli, dovremmo percepire il loro cammino fatto di visualizzazioni. Dovremmo imparare a sentire, l’obiettivo sarà quello di avere delle nuove visualizzazioni, dei suggerimenti per le nostre menti. Se i risultati che vogliamo raggiungere non sono in linea con la nostra vera essenza, questi potrebbero non avverarsi mai, nonostante la nostra tenacia. Le nostre delusioni saranno quindi infinite, nonostante il mondo ci stia aspettando da tempo come suo importante anello mancante di una catena la cui nostra funzione paradossalmente ancora non conosciamo, ma è la natura che la conosce e che l’ha organizzata, non noi che con la ragione quella catena l’abbiamo spezzata. Allora occorre fermarsi, affidarsi al silenzio interiore, al vuoto e riprendere la strada giusta. Il vuoto, quello positivo, fatto della nostra piena essenza, è l’essere, è parte di noi, è ricchezza e se vogliamo si fa sentire con tutta la sua forza. Si rag- giunge con la meditazione, quando lasciamo andare i pensieri e soprattutto i desideri, aspettative e speranze, le nostre vere catene. Hiang-po diceva che gli uomini hanno paura di abbandonare le loro menti perché temono il vuoto, ma non sanno che questo è proprio il regno della Via autentica. Per la cultura orientale il vuoto è il “latte dell’anima”, stiamo bene quando siamo vuoti, ma qui inteso insenso positivo, non quando siamo pieni di pensieri; i pensieri ci fanno ammalare. Vuoti di pensieri ma ricchi di spirito.
Nella cultura occidentale invece, quando diciamo di sentirci vuoti, intendiamo la cosa in senso negativo,mentre il vuoto più che un nemico in realtà è un alleato. Crediamo occorra riempire questo vuoto, mentre invece basterebbe assecondarlo per trovare il camminoche cerchiamo. Noi raggiungiamo, invece, il vuoto negativo, quello che si ottiene quando siamo stanchi di ogni cosa e delusi a tal punto da lasciarci deprimere e calarci in anomale ed epidemiche depressioni. Dovremmo connetterci col vuoto autentico molto prima che questo arrivi da solo, trovandoci deboli e im-preparati, impauriti, perché è in quel silenzio che in realtà si trova la soluzione ai nostri disagi. Un arrendersi al vuoto è il contrario di quello che facciamo per abitudine, come cercare soluzioni razionali, e senza fermarsi a meditare, ci tuffiamo nei dettami dell’accumulare. Mentre entrare nel vuoto è entrare in noi stessi, uno spazio dove le soluzioni affiorano e i problemi svaniscono. Carl Jung nel suo Libro Rosso esprime la convinzione che i pensieri siano limitanti, e dice di non portarseli dietro, inclusa la conoscenza. “Non portarsi dietro niente di ciò che riempie il secchio, una zavorra inutile che non è altro che acqua; altrimenti guarderemo sempre e solo il suo riflesso, con enorme fatica, e nient’altro nella direzione di nuove conoscenze, di nuovi cammini. Nella ricchezza, nei beni materiali, nel prestigio, non vedremo altro che il riflesso della luna nell’acqua del secchio, mentre la luna vera è lì in alto. Occorre lasciare cadere il secchio, cosicché l’acqua sfugga via. Solo questo ci permetterà di alzare lo sguardo e vedere la vera luna nel cielo. Ma prima dobbiamo avere conosciuto il sapore del vuoto, dobbiamo lasciar cadere il secchio della nostra mente e dei nostri pensieri: non più acqua, né luna, ma il vuoto nelle mani”. Nafis concluse così il suo pensiero con gli amici, mentre fermi ai piedi del loro bosco, guardavano tuttil’immensa valle. Rimasero in silenzio per molto fino a quando si fece sera. Poi videro una poiana alta che planava serena e tutti dimenticarono l’ora, il tempo, i pensieri, rimanendo abbracciati al vuoto, abbracciati idealmente tra loro e con gli animali lì presenti, per poi d’incanto essere invasi da pensieri nuovi. Fino a quando l’amico Enea ad un certo punto, rompendo quel momento fatto di silenzio positivo, domandò a se stesso e agli altri: “Sono io con la mia volontà che guardo il cielo, o è il mio corpo e i miei occhi che fanno parte del cielo? Forse quella poiana era lì per dirci qualcosa, ci osservava e ci percepiva”. Poi si alzarono e si incamminarono in silenzio verso casa non pensando a niente. Era una magnifica sera. Nel cammino Enea continuava ad alta voce la sua riflessione: “Gli animali hanno una visione della vita edel mondo che noi umani ormai abbiamo dimenticato, visualizzano le loro immagini, le inseguono e questeimmancabilmente si avverano, fino a quando però non le distruggiamo noi altri. Loro non sentono il razzismo e lo specismo, vivono la profondità e la spiritualità di una vita sana e naturale. Noi umani abbiamo perduto quelle qualità, o non l’abbiamo neanche mai avute, e riteniamo addirittura glianimali poco intelligenti. La scienza che studia il comportamento degli animali si limita a decodificare quello che vede e che sente: versi, atteggiamenti, movimenti, comportamenti di relazione, alimentazione, corteggiamento, fuga o attacco, spesso relegandoli a istinto privo di volontà. Lascienza sostiene che gli animali, avendo un cervello meno complesso, sicuramente sono meno intelligenti di noi umani, visto che gli studi sono basati sul paragone con il nostro cervello, ritenuto il più evoluto, e quindi si possono considerare anche esseri non senzienti, che non soffrono”. Nafis allora esclamò: “Esseri che non sentono, che si possono seviziare, torturare in capannoni lager, trasportati vivi in macelli ad essere uccisi, non prima di averli straziati, stipati in camion per giorni senz’acqua, e osservati senza porci una sola domanda nei loro occhi lucidi quando in auto gli passiamo davanti! Niente domande, creature in questi loro ultimi viaggi di sofferenza, poi finite in ogni nostra mensa, in laboratori per esperimenti, rinchiusi in circhi e zoo, tutto per il nostro piacere! Quindi per la scienza e la cultura generale noi saremmo autorizzati a torturare e uccidere impunemente ogni altra specie, senza scrupolo alcuno?! Cultura, che dalla culla del mondo greco pre-cristiano si è solo involuta, ma che oggi va con immanenza recuperata. A fianco della scienza troviamo poi quelle religioni che fanno dell’uomo l’essere superiore a qualunque altra specie vivente, perché creato ad immagine e somiglianza di Dio. Gli animali, stretti tra l’arroganza e se vogliamo l’incoerenza e l’immoralità di scienza e religione, non hanno mai avuto un riconoscimento da parte dell’uomo, ormai rinchiuso da tempo nella sua presunzione più becera, nelle sue paure e incapacità di saper vivere, non più parte integrante della Terra. In tutto questo gli animali, però, sono tolleranti verso l’uomo e la sua prepotenza e vanno per la lorostrada, continuano a contemplare la Terra, il suo verde e i suoi raggi di luce. Loro sono pacifisti. Arrivano ad estinguersi piuttosto che entrare in competizione con la specie umana. Il patrimonio di conoscenze degli animali comprende valori che sono tutt’altro che la guerra e la distruzione. Non combattono e non distruggono l’ecosistema, cosa inaccettabile per loro perché significherebbe la loro morte, loro questo lo sanno, noi pare invece di no, loro il mondo lo vivono, lo contemplano ogni momento, con inimitabile convinzione, in ogni istante. Ma ciò ai nostri occhi risulta una conferma della loro scarsa intelligenza e non il segno di specie pacifiste, attente all’ambiente, più evolute. Il non riconoscere a fondo l’essenza delle altre specie, la loro “cultura”, le loro capacità percettive ciimpedisce di avere qualsiasi forma di comunicazione con loro. Del resto la cosa è difficile dal momento che con il nostro stile di vita impegnato, sedentario, tra quattro mura, alimentare, abbiamo perso ogni percezione sensoriale. E allora, erroneamente e ingiustamente, riteniamo gli animali incapaci di comunicare e bravi solo a emettere dei suoni, da noi chiamati con disprezzo versi. Con l’egocentrismo umano si è stabilito che la lingua parlata è l’unico modo di comunicazione degno di essere definito come cultura; l’uomo non riesce a comprendere che le creature del suo stesso regno animale, comunicano fra di loro e con noi! Loro comunicano con le forme e i modi che gli sono propri, forme antichissime e molto evolute, che vannooltre le nostre bugiarde parole. Si tratta della percezione sensoriale, della telepatia, della visualizzazione di immagini e trasmissione o ricezione telepatica delle stesse immagini, oltre che di un complesso e articolato linguaggio di suoni e del corpo. Gli animali stanno lì, pazienti, imperturbabili davanti a noi, ci osservano, vedono degli esseri ottusi, ma ci compatiscono, muovono le loro orecchie per mandarci un segnale. Noi rimaniamo fermi e non comprendiamo niente, nella nostra presunzione, mentre loro ci stanno parlando. Per tutti gli esseri viventi la telepatia è la più antica forma di comunicazione; gli uomini l’hanno ormai per- sa, o mai approfondita, a vantaggio della parola.
Gli animali seguono ancora, invece, questo linguaggio universale, non reprimono le proprie sensazionicome facciamo noi. Con esse comunicano, conoscono ed esplorano ogni realtà che trovano nel loro cammino. Utilizzano la telepatia per immagini, ma anche per sensazioni, ci comprendono più di quanto noi possia- mo immaginare, ecco perché non si fidano quasi mai dell’uomo. Ogni gruppo sviluppa per i propri membri un legame impalpabile, in questo legame le loro comunicazioni telepatiche si realizzano. Chi vive con degli animali sa che basta anche soltanto pensare, ad esempio: “adesso esco”, per vedere il nostro cane pronto a uscire; perché al cane arriva l’immagine dell’amico umano fuori a passeggio”.
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“Oppure” raccontò Nafis: “per esempio i miei gatti Sissi e Panic, che non giocano mai insieme, una sera nella pace e nel silenzio della casa nel bosco di mia nonna li vidi seduti a distanza e io, invece di parlare,pensai: “ma perché non giocate un po’ anche voi come gli altri”, e spontaneamente, come difficilmente mi succede, visualizzai l’immagine di loro che giocavano. Un attimo dopo, qualcosa mi turbò profondamente: Panic e Sissi si stavano rincorrendo in piroette e sbandate improbabili; avevano accolto la mia visualizzazione”.
Gli animali recepiscono e ci parlano sempre con la telepatia delle immagini e delle sensazioni, ma noi non riusciamo a comprendere, immersi come siamo in una moltitudine di pensieri caotici, non decifrando nulla o quasi di quanto loro cercano di comunicarci, di quello che la natura ci trasmette. Per ascoltare la natura e parlare con gli animali dobbiamo viverla e goderla in contemplazione, abbandonare i nostri pregiudizi nei loro confronti e imparare una comunicazione differente, la telepatia, che per loro è un processo naturale, che non necessita di mettersi gli uni davanti agli altri o gesticolare, basta pensare a quello che vogliamo trasmettere, con la mente libera dai pensieri, usando le immagini. L’animale capirà. Se trasmettiamo amore e pace, la natura ci risponderà arricchendoci, l’animale ci risponderà nei suoi canoni e criteri. Un cavallo timoroso si avvicinerà, se invece trasmettiamo agitazione o paura, fuggirà o ci attaccherà”. “Un giorno”, raccontò Nafis “andai a camminare per raggiungere la vetta di un monte alto appena 1000 metri, ma bellissimo per la sua posizione, da dove si vede a nord la piana di un’antica stupenda grande città medievale incastonata tra i monti, a est la montagna di riferimento che tutti vedono nella nostra grande valle, a ovest la piana di una vivace e solare città di mare, e a sud il Monte Sacro con all’orizzonte tutto il grande mare che faceva ingiustamente, come sempre, la parte del leone, prendendosi da solo tutto il sud, l’ovest e il nord, a ribadire che era lui l’unico, il più grande, l’inimitabile, il più forte, il più bello. Durante la salita, nel bosco, mi corsero incontro con fare aggressivo un cane Rottweiler e un Pastore Maremmano, senza collare. Rimasi fermo immobile, sapevo che loro conoscono il linguaggio del corpo e, telepaticamente i messaggi della mente. Eliminai la paura. Pensai ad una carezza nei loro confronti, ma non ne accennai il movimento. Fu solo in quel momento che iniziarono a muovere la coda, mi girarono intorno e mi annusarono le mani, mi guardarono ancora un attimo, però non so cosa mi dissero. Forse mi chiesero se in valle c’erano pericoli, ma dato il mio silenzio, delusi dalla specie umana incontrata non troppo comunicativa e utile in quel momento, ripresero subito la loro strada verso la valle. Dopo 40 minuti di cammino ero in vetta, e trovai un altro cane pastore, era assetato, gli diedi un po’ d’acqua e poi di fronte a quel panorama stupendo, rinfrancato, meditai per del tempo, mangiai il mio panino, infine pensai: che bellezza, quasi quasi non scendo, e si fece sera”.
Quindi Nafis si avviava verso la conclusione del suo ragionamento, che tutti gli amici attenti non ritenevano affatto privo di fondamento: “Contemplando, con la pratica, la sperimentazione, il silenzio e il respiro, prenderanno forma nella nostra mente le immagini e le sensazioni frutto dell’esperienza e dell’espressione di chi le trasmette, e ci sentiremo in un gruppo, in comu- nicazione ancestrale, parte integrante di quel grande popolo della natura. Superando l’antropocentrismo che ci caratterizza, mettendoci in gioco nel mondo naturale, dandoci del tempo per imparare, potremo apprenderne le bellezze nascoste e i misteri affascinanti che questo ci riserva, che abbiamo solo imparato a guardare ma di fatto senza vederlo, senza udire la sua grande sinfonia. Uno dei nostri obiettivi primari della vita dovrebbe essere quello di imparare dalla natura, dagli animali, per rientrare a pieno diritto nel suo Regno, nelle sue dinamiche, ritrovare la nostra funzione e contribuire da dentro la natura alla completa realizzazione dei suoi cicli e della sua perfezione, al di là della realizzazione che cerchiamo inutilmente nelle nostre città, nel nostro superego, nei beni materiali”. Gli amici rimasero attoniti, la riflessione del parlare aveva mutato i loro occhi, erano divenuti limpidi, profondi. Non guardavano più Nafis e le cose, vedevano altro, forse l’universo intero, forse gli occhi della poiana in volo circolare sopra di loro, forse il loro essere interiore, ora più forte e sicuro di se stesso. L’amico Enea prese la parola e disse agli altri, togliendosi quel fiore che spesso teneva tra le labbra: “A proposito di quella poiana che l’altra sera, parlando di queste cose, di aquile, di aironi, comparve d’improvviso, mi è giunto un segnale: che la poiana non abbia percepito la nostra presenza attenta, la nostra forte energia? Che non sia arrivata per caso a comunicarci qualcosa, proprio in quel preciso momento? Gli animali non vanno osservati e basta, per ammirare la loro bellezza, il loro fare, il loro muoversi sublime, ma occorre guardare il loro mondo, il mondo con i loro occhi, riuscire a immaginare cosa sente un animale quando osserva le cose, il perché le osserva. Il suo corpo si rilassa quando guarda, un airone o una poiana che plana sopra di noi, mentre siamo concentrati su una strada a guardare le macchine, l’asfalto lì davanti, sposta incuriosito il capo e quegli occhi profondi, vispi, dal colore indecifrabile, ricchi di tutta la pienezza della natura, verso tutto ciò che non è la strada, verso il tramonto, verso un bosco, poi, repentinamente verso una collina, mentre in volo il suo corpo cambia leggermente la direzione e le sue piume sono distese al vento, le ali spalancate a disegnare delle geometrie di volo incredibilmente perfette. Geometrie invidiate da tutti noi, che abbiamo creato ingombrati e impacciati volatili d’acciaio. Perché la poiana, o la rondine, o lo storno, quando osservano la natura, quando volano e si stirano dol-cemente, sono in pace? La risposta è semplice: perché sono nel tutto, sono della natura il suo perfetto frutto, e le rendono riconoscenza quando virano in incredibili picchiate e acrobazie! Godono solo di essa,la natura, la dominano e ne sono dominate. I loro occhietti profondi e vispi non solo vedono, contemplano, scartano l’inutile, il brutto, ma si arricchiscono della bellezza che li attrae, ricchissimi di cultura ancestrale, sono gli occhi della natura! Noi dovremmo riuscire guardare il mondo come fan- no loro, quindi non solo ammirare le forme estetichee dinamiche dell’animale, ma andare oltre: ammirare il mondo con quegli stessi occhi, con i loro occhi, gliocchi della natura”. Nafis, come tutti gli altri, rimase esterrefatto dall’idea semplice ma geniale di Enea, idea a cui nessunoaveva pensato prima: “Guardare non solo l’animale, ma il mondo con gli occhi dell’animale”. Ci rifletté per dei giorni, fino a quando non ne com- prese il senso profondo, un senso che si era portato dentro da sempre, ma senza riuscire mai a coglierlo, ad esprimerlo a parole. Lo comprese poi, grazie alla sua lunga osservazione della natura e degli animali, grazie alla scintilla di pensiero nata da Enea, e infine chiuse il cerchio di quella intuizione leggendo una storia che gli capitò davanti per caso. Ma forse non era un caso. E allora Nafis una di quelle sere di fronte al tramonto raccontò questa storia a tutti gli altri. Sentiva il bisogno di chiudere il cerchio su quei concetti fino a lì espressi e poi ridefiniti in modo sublime dall’amico Enea. Lo fece quando con gli amici si recò nella spiaggia perfetta. Era la loro spiaggia ideale, speciale, dal calore e dalla pace che parlava da sé, abitata solo da animali, gabbiani in cielo e volpi che li raggiungevano spesso dall’immensa pineta, sul mare. E poi insetti improbabili, dalle corazze strane, a camminare sulla sabbia, farfalle enormi e colorate che volteggiavano, cespugli profumati e sabbie e dune calde e meravigliose, un mare che si estendeva a 180 gradi a perdita d’occhio, a nord, a sud e a ovest, con il suo vento dell’ovest che portava loro la migliore energia. Era la spiaggia perfetta per poterci anche vivere, scoperta nelle loro perlustrazioni a ripulire quelle spiagge e quelle pinete invase da plastiche e mozziconi di sigaretta. Nel momento di migliore pace, col sole tiepido che salutava i presenti su un mare piatto dallo spirito sereno, lo stesso dei pensieri sempre inseguiti da Nafis, poggiati su di un’acqua calma come dei fiori di loto su laghi lisci come l’olio, raccontò agli amici tutto il signi- ficato dell’esistenza della vita su questa Terra. Il significato era emerso finalmente dopo le loro molte escursioni nella natura, nelle ultime riflessioni fatte insieme ad Enea, poi tutto sintetizzato nella lettura di Nafis che dava ai presenti la granitica conferma a coronazione delle loro intuizioni, che cercavano da tempo, perfetta in quel momento, che arrivava loro proprio adesso che avevano capito, forse spinta da energie cosmiche convergenti. La storia era un’avventura di un grande amante del mare che aveva trasmesso all’umanità un inestimabile messaggio. Si trattava di Enzo Maiorca. Così Nafis raccontò: “Era immerso nel caldo mare del Sud, parlava a poca distanza con la figlia che erasulla barca pronta ad immergersi con lui negli abissi, all’improvviso si sentì sfiorare dolcemente una mano, si girò e vide un delfino. Capì subito che non voleva giocare, ma esprimere qualcos’altro. Il delfino si allontanò veloce e Maiorca lo segui a nuoto. Poi il delfino si immerse e Maiorca lo seguì in profondità quando vide che impigliato nella rete di unaspadara abbandonata c’era un altro delfino. Maiorca emerse rapidamente e chiamò a gran voce la figlia perché lo raggiungesse con due coltelli da sub. In pochissimi minuti Enzo e la figlia riuscirono a liberare il delfino impigliato nella rete, il quale allo stremo delle sue forze riuscì ad emergere ed emettendo un grido, così disse Maiorca: “quasi un grido umano” e finalmente riuscì a respirare. Il delfino liberato restò immobile per un po’, mentre Enzo, la figlia e l’altro delfino gli stavano intorno in grandissima apprensione; poi d’improvviso si riprese, l’energia tra i tre iniziò a scorrere forte, l’empatia li aveva cementati. Si scoprì che era una femmina perché da lì a poco partorì un piccolo. Mamma e cucciolo si allontanarono nel loro mare, mentre il delfino che aveva avvertito l’uomo del mare, per gli altri uomini “il mito del mare” fece un giro intorno ai due umani e si fermò un attimo davanti ad Enzo Maiorca, gli diede un colpetto, che sembrò un bacio, sulla sua guancia, era l’espressione della sua gratitudine, e poi si allontanò per sempre a raggiungere i suoi simili, dovevano vivere in pieno il loro e il nostro mondo, la loro natura era forte, era dentro di loro. Tutti i presenti sulla barca si alzarono in piedi con gli occhi lucidi per un lungo e caloroso applauso. Enzo Maiorca di seguito disse loro: “Fin quando l’uomo non avrà imparato a rispettare e a dialogare con il mondo animale, non potrà mai conoscere il suo vero ruolo su questa Terra”.
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